Una passione per i boschi, il debito con la tradizione culinaria francese e un talento coltivato con umiltà

Ride molto, Diego Rigotti, classe 1984. E tutte le volte che potrebbe farsi bello dei traguardi raggiunti preferisce tenere un profilo basso: eppure nel 2012 ha vinto il premio come miglior chef emergente d’Italia, nel 2014 ha rappresentato il nostro paese al Bocuse d’Or (la più prestigiosa competizione gastronomica del mondo) e sempre nel 2014 ha ricevuto una stella Michelin grazie al lavoro svolto nella cucina del ristorante Maso Franch di Giovo, comune della provincia di Trento.

La chiacchierata con lui comincia proprio dalla stella Michelin, ed è subito improntata alla modestia: ‘Il riconoscimento è arrivato dopo due anni che lavoravo in questo ristorante, ma era comunque un posto di lusso e già stellato, quindi già importante e di buon livello. Io non ho fatto altro che dare la mia impronta e proseguire il lavoro che stavano facendo, migliorandolo e adattandolo secondo il mio modo di interpretare il cibo’.

‘La mia è una cucina territoriale’ a cui si aggiungono ‘tutte le esperienze che ho fatto e gli insegnamenti dei miei maestri: Carlo Cracco, Andrea Berton, Gualtiero Marchesi, Marc Veyrat. Quindi, dovendo definirla in due parole, direi che è territoriale e creativa e che utilizza tanti elementi del bosco’. Quest’ultimo aspetto, soprattutto legato alle erbe selvatiche, deriva principalmente dall’esperienza con Veyrat, in Alta Savoia: ‘Quando ero il suo sous-chef, ogni mattina andavo in montagna a raccoglierle’.

In un certo senso nasce dai boschi anche il piatto cui chef Rigotti è più affezionato: ‘È il dolce Sottobosco, che avevo già iniziato a studiare circa otto anni fa, quando ero in Francia con Veyrat, e che poi ho portato avanti, modificandolo un po’. Grazie anche a questo piatto ho vinto il premio come miglior chef emergente d’Italia nel 2012′. Ovviamente, è ancora in menù: ‘Ormai è un must’, dice ridendo.

Tornando con la memoria indietro nel tempo, Diego Rigotti ha un’idea piuttosto precisa di come è nata la passione per la cucina: ‘Mia nonna era francese e la domenica, quando ero piccolo, preparava sempre dei pranzi sfarzosi, lavorando ogni volta cinque, sei ore. Io ero molto incuriosito, la seguivo e l’aiutavo: credo che la passione sia nata in quel momento’.

Molti anni più tardi, e dopo l’esperienza con Veyrat, la Francia è tornata in primo piano grazie alla partecipazione al Bocuse d’Or, che si tiene ogni due anni: ‘Sono arrivato quindicesimo e sono contento, perché pensavo che sarei stato ultimo. È sicuramente il concorso per eccellenza, il più prestigioso al mondo, ed era la prima volta che l’Italia partecipava, sia il promoter sia io come chef’.

È stata una prima volta per molti versi ‘corsara’, con il cuore gettato al di là dell’ostacolo e partendo con qualche handicap. Intanto, ‘i primi tre paesi classificati, cioè Svezia, Norvegia e Danimarca, hanno investito per questo concorso 500mila euro: qui in Italia di sponsor che ne sono sempre meno e abbiamo speso forse 20mila euro’. Inoltre, la frequentazione del concorso fa una bella differenza: ‘Uno che ha già partecipato arriva più preparato, perché un conto è avere delle indicazioni, un altro è averle provate sulla pelle. Il candidato della Svezia, per esempio, era già al terzo Bocuse, quindi poteva vantare una preparazione di sei anni per questo concorso, non di due mesi come me’.

Resta però la soddisfazione, non solo per il quindicesimo posto: ‘Secondo il punteggio assegnato al piatto di pesce e di carne avrei dovuto classificarmi al quinto e sesto posto. Mi ha penalizzato la giuria tecnica, che era composta da cuochi svedesi e che ai paesi nordici ha dato un punteggio altissimo. Però va bene così, è stata una bella esperienza, che mi ha aiutato a migliorare’. Esperienza da ripetere? ‘Sì, mi piacerebbe rimettermi in gioco’.

Nel frattempo è già stato accantonato anche l’entusiasmo per la stella Michelin. Soprattutto perché chef Rigotti non vuole correre il rischio di sedersi sugli allori: ‘Siamo stati tutti contenti, quando è arrivata, ma preferisco gioire e poi chiudere il capitolo, continuando a guardare avanti e cercando di fare sempre meglio’. Anche perché la condizione, al Maso Franch, è ideale: ‘La società per cui lavoro mi mette a disposizione tutto, sta investendo sempre di più. Sono felice: in questi quasi tre anni non ho mai avuto da ridire nemmeno una volta’.

Un ultimo, fondamentale pensiero, è per la famiglia: ‘Ultimamente sono molto impegnato sul lavoro e devo ringraziare mia moglie, che mi sostiene e porta pazienza. Abbiamo tre figli, poveretta, e per lei non è semplice’, conclude ridendo.