Con la sua faccia da bravo ragazzo, a vent’anni il Faraone è il simbolo del talento di una generazione che avanza. Nonostante tutto. A cresta alta.

Arriva da solo, apre la porta della sala dove lo stiamo aspettando. Per un attimo sta lì, incorniciato dallo stipite alto dell’elegante vecchia casa milanese. Lo guardi, e ti sorprendi a constatare che la rivelazione della stagione, capocannoniere del Milan in doppia cifra, maglia azzurra ormai ben cucita sulle spalle, ha la faccia timida e il sorriso aperto di un ragazzino che dimostra persino meno dei suoi 20 anni. Generazione facebook e playstation, accompagna la vita con colonna sonora hip hop e deep house in cuffie extralarge. È vestito da rapper, felpa con cappuccio, collanine, pantalone oversize. Niente tatuaggi: considerato l’ambiente, a suo modo questo è un segno distintivo. Ma la prima cosa che dice, come leggesse un copione, è: «Devo ancora crescere molto, professionalmente ho ancora tanto da imparare».

In effetti, sei arrivato al Milan che non avevi nemmeno 19 anni. È stata dura?

«Spiazzante. Ma l’accoglienza è stata bellissima, mi ha permesso di integrarmi subito con i senatori, i campioni».

Un punto di riferimento?

«Seedorf. Un grande, in tutti i sensi. Passavamo molto tempo insieme e mi ha insegnato tante cose, sulla professione, sull’amicizia e sulla vita».

Meglio di un padre?

«Questo no. Adoro la mia famiglia, con i miei parlo tantissimo, di tutto, da sempre. E poi mi sostengono, mi supportano in ogni cosa che faccio».

Anche troppo?

«Sono presenti, non invadenti».

Ti mancano, ti sono mancati?

«No, perché li ho sempre sentiti vicini. In ogni caso, prima mi ha seguito mio padre, e ora mia madre è venuta a Milano per vivere con me».

E tuo fratello?

«Siamo unitissimi, diciamo complementari: lui studia e io gioco. Almeno per il momento».

Fai per lavoro quello che i ragazzi fanno per gioco.

«Vero, è un’altra realtà. E all’inizio fa effetto. Ma poi diventa l’unico mondo possibile. Adesso per me, non c’è altro che il calcio».

E cosa fai per distrarti, insomma per giocare davvero?

«Esco con gli amici, qualche ora alla playstation…».

Indovino: calcio anche in digitale?

«Certo: sono presente in tutti i videogame di calcio in forma virtuale. Le prime volte che mi sono comandato in versione playstation, è stato un bell’effetto. Mi giocavo, ero il mio avatar. E quando mi arrivava la palla… insomma, cercavo di fare un buon gioco».

Roba da Faraone?

«Be’, un po’ sì».

Ti piace questo soprannome?

«Molto. Ha una bella storia. Tre anni fa, alle finali nazionali con la Primavera, ho fatto un gol che per me era importantissimo e il mio amico Perin ha imitato la posizione dell’airone. Io ero lì, ai suoi piedi, e ho fatto quella dell’egiziano da geroglifico. È da allora che mi chiamano Faraone».

Un tuo sogno all’altezza del soprannome?

«Quello che sto vivendo ora».

Nella squadra giusta, quindi.

«Sono tifoso del Milan, ancora prima che calciatore».

Chi era il tuo mito, quand’eri solo tifoso?

«Kakà. Forse perché mi hanno spesso paragonato a lui, come giocatore e come persona: anche lui è un ragazzo semplice, pulito, come penso di essere io. Quando l’ho incontrato la prima volta, in un’amichevole, a fine partita gli chiesi la maglia e lui me la regalò con un sorriso. Quel sorriso non mi ha più abbandonato, ogni volta che ripenso a quel giorno, lo rivedo. Come in un film».

Ora sei tu l’idolo di ragazzini che sembrano tuoi cloni, tutti pettinati  con la “tua” cresta.

«Mi piace molto l’idea di essere preso come modello».

E con Mario Balotelli, come è nata l’amicizia?

«Istintivamente. Subito, appena ci siamo incontrati».

Eppure sembrate agli antipodi: tu il bravo ragazzo e lui il bad boy.

«Niente di più falso. Questa storia è tutta un’invenzione dei giornali. Mario non è come vogliono farlo sembrare: è anche lui un tipo semplice, come me».

Avete tutto in comune, quindi?

«Siamo due ragazzi molto simpatici!».

Sei musulmano?

«Sì, sono credente, ma mi limito a non mangiare maiale e non bere. La religione per me è soprattutto una questione di valori e di abitudini quotidiane legate alla mia famiglia».

Anche tua madre è musulmana?

«Quando ha incontrato mio padre, si è appassionata alla lettura del Corano e poi ha deciso di convertirsi. Lei è molto credente, ma noi ragazzi siamo cresciuti in Italia, con compagni italiani».

Li frequenti ancora?

«Certo, anche loro sono sempre con me. Uno gioca a pallone, altri due, Manuel e Aurel, suonano. Manu scrive i testi di canzoni rap e Lulo, nome d’arte di Aurel, fa il deejay».

Le tue passioni, giusto?

«Sì, mi piace da pazzi quel tipo di musica. La ascolto in cuffia quando sono libero, ma il momento in cui non posso farne a meno è prima delle partite, quando siamo in viaggio per raggiungere lo stadio. Mi carica».

E la fidanzata?

«Sì». (Impossibile scucirgli una parola di più, a parte una rapida ammissione di felicità: il fratello, sempre al suo fianco, lo blocca subito).

Altri sport?

«Beach volley, ping pong, tennis, ma soprattutto biliardo, la  mia seconda passione, il vero hobby».

Il biliardo è uno sport?

«Ehi, la sfida è una cosa seria! A Milanello ci sono due tavoli, nella sala relax. Il confronto classico è Pazzini-Montolivo-El Shaarawy».

E chi vince?
«Spesso io».

Foto Michelangelo Di Battista

Fashion editor Andrea Tenerani

Testo Micol de Pas

Fashion assistant Marco Dellassette.
Grooming Grazia Riverditi e Antonello Rossello @Glowartists

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