Intervista al designer che ha fatto 
di perfezione e sensualità due imperativi. 
Confessa di amare il compagno e il loro figlio e di non andare dal barbiere

Foto di Jeff Burton

Non tocco l’alcol da sei anni, non mi drogo più, non fumo. Smettere di bere mi ha cambiato. Prima ero più irresponsabile, ho fatto cose inappropriate di cui non vado fiero. Forse vestivo da persona raffinata, ma certo non mi comportavo come tale». Sono moltissimi i pensieri che affollano la mente quando – uomo o donna, etero o gay, critico consumato o groupie – ti trovi per la prima volta davanti a Tom Ford, e tutti inevitabilmente coinvolgono farfalle nello stomaco, palpitazioni, gambe molli. Ma mentre sei lì pietrificato e inetto come dinanzi a Luigi XIV Re Sole, ad annullare le distanze pensa lui. «Ciao, sono Tom», ti fa, sbucando da una porta laterale del suo studio londinese, dove presenta la collezione uomo Autunno/Inverno. «Ciao, sono Tom». Saperlo che era così facile. Così poi quando lo ritrovi quella sera, in una saletta della Chiltern Firehouse, modaiolissimo locale londinese dove festeggia il lancio del nuovo profumo Noir Extreme, è quasi come rivedere un vecchio amico. Se solo quella sua camicia bianca – che si sbottona via via che la serata avanza – tenesse un po’ di più… Tom, non mi confondere, che ho solo sedici minuti.

Perché diciamocelo, solo Coco Chanel ha saputo incarnare lo spirito delle proprie creazioni più di lui. Testimonial straordinario non solo dei suoi abiti (o dell’assenza di), ma di uno stile di vita. Essere Tom, avere Tom. L’uomo che negli anni Novanta salvò Gucci, allora in crisi identitaria e di moneta, e dopo essersene andato, 15 anni dopo («Un’esperienza devastante», la definirà, perché alla casa fiorentina aveva dato la sua vita, e improvvisamente non sapeva più chi fosse), ha creato il marchio che porta il suo nome e girato un film, A Single Man, celebrato come capolavoro di art direction, fotografia, costumi. Anna Wintour, che fa complimenti con la frequenza dell’impatto degli asteroidi sulla Terra, ha dichiarato che il perfezionismo di Tom Ford umilia il suo.

Un rigore che si porta dietro da bambino, tanto che, racconta, quando ne chiede conto ai genitori, quelli sorridono e tirano fuori i vecchi filmini di famiglia, che lo descrivono inappuntabile e autocritico già a tre anni. «Penso sia innato», chiosa. «Mio figlio Alexander ha solo due anni e mezzo, ma già inizia a sviluppare un forte senso del sé, sa cosa gli piace indossare e cosa no». Non sempre funziona. A 14 anni il giovane Tom andò nel panico per le borse sotto gli occhi. Mise due fette di cetriolo sulle palpebre e finì all’ospedale perché allergico.

Oggi, se possibile, Ford è ancora più in controllo, dice, più consapevole di sé. Merito anche della stabilità. Un anno fa ha sposato il compagno di una vita, Richard Buckley. Si erano conosciuti nell’86: «Bastò una corsa in ascensore». Un amore bellissimo, a tratti disperato: i loro amici muoiono di Aids, Buckley si ammala di cancro alla gola. Nel 2012 diventano genitori. «Avere Alex mi ha rilassato», giura. Di certo gli ha stravolto le abitudini: «Prima giravo per casa sempre nudo, con la babysitter non posso farlo più».

Così, mentre i suoi colleghi mettono in discussione i fondamenti della virilità, mandando in passerella uomini con la gonna a balze e innamorandosi di concetti come il “genderless”, Ford lancia una nuova generazione di impeccabili. Ventenni stilosissimi con mini-cravattini, completi pied-de-poule cuciti addosso, ossessionati daldal dettaglio. Come Eddie Redmayne, Nicholas Hoult, Benedict Cumberbatch: i “suoi” giovani Brit che tra un frac e un paio di Oxford lisce conquistano i red carpet. Ossa sottili, tratti aggraziati, e però maschi.

Tanta perfezione non sarà anche un’armatura?
Certo. Al mattino mi ci vuole tanto tempo per diventare quello che altri si aspettano che io sia. Quando sono di cattivo umore, o se ho davanti una giornata intensa, seguo un rito di vestizione molto rigido. È come se mi costruissi uno strato difensivo: se nel mio mondo c’è ordine, allora so che ce la farò. Il fatto è che crescendo diventi sempre più te stesso. Sono molto più a mio agio oggi, a 53 anni, di quanto non sia mai stato in tutta la mia vita. Forse perché cinquantenne sono nato. Li avevo a cinque, dieci, quindici anni. Da ragazzino ero l’epitome dell’American Preppy. Jeans, perché vivevo nel New Mexico, e camicie button-down di cotone stretch. Già a vent’anni (quand’era ospite fisso dello Studio 54, ndr.) portavo blazer blu e mocassini Gucci. A New York ho scoperto i completi e non li ho più lasciati.

Ha dichiarato che quello di stilista è un mestiere da egocentrici maniaci. Imporre al mondo la propria visione attraverso lo stile. Cosa pensa della nuova guardia di stilisti che denuncia la fragilità del maschio, scuotendone il ruolo nella società?
Trovo che ognuno debba fare ciò in cui crede. Io non disegno per persone timide: i miei clienti vogliono essere guardati. Credo però che l’abbigliamento maschile e femminile debbano muoversi entro parametri specifici. Una giacca deve avere due maniche. È il motivo per cui non sono un fan della sfilata classica, dove l’esagerazione è sempre in agguato. Capi disegnati per scioccare, per scatenare gli “Ohhh”, e che però non sono veri. Quando vedo certe cose mi chiedo, «Chi lo indosserà? Chi vorrà comprarlo?» Quand’è che la moda maschile ha smesso di vestire la realtà?

Secondo lei, per essere validi, i cambiamenti nella moda devono riflettere quelli della vita, e della società.
Certo, altrimenti sono solo virtuosismi. Prima del 1967, per esempio, le donne non avrebbero mai portato i pantaloni. Poi il femminismo, la contraccezione, la donna che esce dalla sfera casalinga. Come si traduce nella moda? Pantaloni.

Maschi-maschi, diceva. E però oggi gli uomini spendono in bellezza quasi più delle donne. La sua stessa linea grooming comprende tre oli da barba, correttore, balsamo per labbra, rivitalizzante, trattamento anti-fatica per il contorno occhi… Devo continuare?
Non è la prima volta che gli uomini investono tempo, risorse ed energie nella cura di sé. Alla fine del Settecento era normale per un maschio indossare pizzi e tacchi rossi e imbellettarsi. Poi uscivano di casa e andavano a uccidere un rivale. Curare il proprio aspetto non era considerato femminile, e credo che quell’attenzione sia tornata. Non che debbano mettere il rossetto, però è indubbio che oggi gli uomini tengano moltissimo alla propria avvenenza.

ìBrotox, manscara, guyliner. Termini che rivendicano come mascolini cosmetici e accessori tradizionalmente femminili. Tocca farsi piacere questi maschi o niente?
No. Si chiamerà mascara, semplicemente, e lo utilizzeranno entrambi. (Ride). Io in realtà non amo l’uomo con le ciglia tinte. Non ho un mascara nella mia collezione e non credo che lo produrrò. La mia linea è studiata per far apparire l’uomo il più affascinante tra gli… uomini.

Dica la verità: lei quanto spende dall’estetista in media al mese?
Macché. Faccio tutto da solo. Mi taglio i capelli con la macchinetta, non vado dal barbiere da vent’anni, non ho mai fatto una manicure professionale. Porto i miei abiti, uso i miei prodotti. Quel che manca, lo disegno. Sono a bassa manutenzione, io.

Scusa, Tom, ma non ci crediamo proprio.