Una mostra al Design Museum di Londra ne celebra i diversi volti: non solo designer, non solo stilista bensì creativo. E noi lo abbiamo incontrato

Paul Smith ha un piede ben saldo nel mondo della moda – essendo quasi certamente lo stilista inglese più famoso della sua generazione – e un altro nel mondo della creatività a trecentosessanta gradi. ‘Hello, my name is Paul Smith’, l’esposizione al Design Museum di Londra (prolungata fino al 22 giugno) e accompagnata dal libro omonimo (ed. Rizzoli), ne mostra i diversi volti. Così, mentre si registra un record nella vendita di merchandising, già si parla di un possibile tour europeo. Noi lo abbiamo incontrato.

 

Paul Smith, conosciamo la sua passione per la fotografia (da qualche stagione è l’autore delle sue campagne pubblicitarie) ma non ne sappiamo l’origine.
Il colpevole è mio padre. Amava fotografare, tanto che contribuì a creare il club di fotografia di Beeston, la sua cittadina. È curioso: non molto tempo fa mi sono imbattuto nel lavoro di un artista ceco, Tichý, che esattamente come mio padre incorniciava le foto con il cartone. Ovviamente lui lo faceva perché sarebbe stato troppo dispendioso comprare delle cornici. Ma era pieno di inventiva. Le sue immagini venivano stampate in bianco e nero e lui aggiungeva tocchi di colore con la tempera.

Le ha indicato la strada?
Mi regalò la prima Kodak quando avevo undici anni. Passavo ore nella camera oscura con lui, ricavata nel sottotetto.

Però poi non è diventato fotografo ma fashion designer…
Il mio sogno era diventare un ciclista professionista. Mi stavo allenando, ma un incidente mi costrinse tre mesi a letto mettendo fine a ogni speranza. A salvarmi, uscito dall’ospedale, fu l’aver conosciuto gli studenti della scuola d’arte di Nottingham. Frequentavamo lo stesso bar. Parlavano di Rauschenberg, Pop Art e Bauhaus. Un vocabolario completamente nuovo per uno che sapeva dire solo Tour de France o Giro d’Italia.

Pauline, la donna che poi ha sposato, era tra loro?
Pauline insegnava in quella stessa scuola, al corso di moda. Veniva da Londra. Si era sposata diciottenne e aveva due figli. Da un giorno all’altro, da ragazzaccio interessato solo ad andare ai concerti rock, mi ritrovai nei panni dell’uomo sposato. Con una grande famiglia: Pauline, i due bambini, due levrieri afgani e due gatti.

Siete stati visti insieme allo Studio 54…
Be’, negli anni Settanta frequentavamo New York regolarmente, presentavamo lì la collezione. Allora lo Studio 54 dava una festa ogni sera, in onore di Halston, Karl Lagerfeld, Liza Minelli… gente di quel calibro. O eri una celebrity o avevi un aspetto che non passava inosservato. Non c’era altro modo per entrare. Per fortuna Pauline, con la sua chioma rossa come il collo di volpe del giaccone di Yves Saint Laurent che le avevo regalato, non passava inosservata. Era il nostro passaporto per lo Studio54.

Fu Pauline a insegnarle “il mestiere”?
Lo stile Paul Smith lo ha inventato lei. Mi ha insegnato l’importanza delle proporzioni e la semplicità. Come hanno scritto, la mia moda è “classic with a twist”.

È vero che va al di là delle distinzioni di classe?
Voglio che i singoli capi mantengano un certo anonimato e la vibrazione arrivi dall’accostamento inedito dei colori. Oggi indosso pantaloni melanzana e una giacca navy, con una fodera vivace. Mi piace associare sobrietà pubblica e flamboyance privata.

Pare che Patti Smith sia una grande fan delle sue calze.
Sì, per via delle iniziali PS. Di recente mi ha regalato una shopping bag di tela chiara con scritto “Da PS a PS”.

È uno dei mille oggetti che colleziona nel suo colorato ufficio?
Dicono che sia caotico, il mio ufficio, io lo trovo perfettamente funzionale. Anche se raccolgo gli appunti in una busta trasparente infilata dietro al tubo in cui passano i fili della corrente. Schizzo e prendo appunti ossessivamente, ma non li riguardo mai. Li conservo.

Sono diversi gli oggetti che colleziona…
Di tutto. Dalle macchine fotografiche, tra cui c’è la Reflex del 1958 di mio padre, ai conigli, di pezza, in legno, in porcellana… credo portino fortuna.