Robert Capa, 100 anni di azzardo e fatalità

Robert Capa©International Center of Photography/Magnum  – Collezione del Museo Nazionale Ungherese

Robert Capa, 100 anni di azzardo e fatalità

di Carmelo Caruso

Nell’anniversario della nascita del celebre fotoreporter di guerra un ritratto dell’uomo e delle sue passioni

La fotografia perfetta è quella che il fotografo non vedrà mai pubblicata. Perdute, rovinate dalla troppa emulsione, censurate, mancate. È come se il tempo si vendicasse di questi furfanti dell’istante, bari della storia, riprendendosi la refurtiva attraverso l’errore, la distrazione, perché no, la maledizione. Robert Capa, di cui il 22 ottobre ricorre il centenario dalla nascita, ne perdette 106 di fotografie per colpa di un assistente di camera oscura che aveva nelle mani i rullini dello sbarco in Normandia, «erano le migliori fotografie di tutta l’operazione», ma andarono perdute per la troppa fretta. Si salvarono solo sei fotogrammi sgranati e fuori fuoco.

Life, la rivista che riuscì a pubblicarle, commentò nelle didascalie: «Le mani di Capa tremavano maledettamente dalla paura». Ancora oggi sono le fotografie dello sbarco alleato, l’irruzione dell’America in Europa, nella spiaggia francese di Saint Lo. Ma quale paura? Non era vero. Anni dopo nella sua biografia, Capa lamentava non la perdita di quegli scatti, bensì del suo prezioso impermeabile Burberry’s abbandonato in spiaggia prima di nascondersi dietro un tank. Ed è bella l’idea del fotografo come giocatore libertino e dandy: «Un fotoreporter di guerra gode di un maggior numero di drink e di belle ragazze, è meglio pagato e ha maggiore libertà di movimento, ma a un certo punto del gioco, avendo la possibilità di scegliere, il suo dilemma è se continuare o comportarsi da vigliacco, sapendo che non finirà di fronte a un plotone di esecuzione», scrisse Capa.

Non esiste foto di Capa in cui sia assente l’azzardo, la fatalità di arrivare nell’istante esatto per insolenza, per fortuna, per temporeggiamento addirittura grazie al senso dell’umorismo, della sbronza. Neppure Allen Ginsberg o il Barney di Mordecai Richler si ingollavano di gin, whisky come Capa che prima di essere paracadutato con i soldati americani non rinunciava alla sua partita di poker, alle perdite che ripianava inserendole nelle note spese che inviava a Life. Lo superava solo Ernest Hemingway che non a caso fu suo compagno prima nella guerra di Spagna e poi a Londra durante il conflitto e che Capa chiamava il «papà». I pedanti, invece si sono divisi sulla fotografia del miliziano repubblicano ucciso, la fotografia più famosa di Capa che apparve in copertina sul numero di Life il 12 luglio 1937. Ancora oggi contesa tra chi ne confuta la sua veridicità. Insomma, verità o finzione?

Nella sopracopertina di Slight Out of Focus era lo stesso Capa a spiegarlo: «Visto che scrivere la verità è ovviamente tanto difficile, nell’interesse della verità stessa mi sono permesso ogni tanti tanto di andare appena oltre, altre volte di fermarmi appena al di qua». Certo, più difficile è inventare una foto, costruirla, almeno quanto il nome Robert Capa che fu una felice fusione venuta in mente alla compagna di Capa, Gerda Taro, altra fotografa di guerra morta sul fronte spagnolo. Capa come il famoso regista Frank Capra, Robert, come Robert Tylor amante di Greta Garbo. Le foto del famoso Capa, spacciate nel ’36 sono un’impostura, ma sono per questo meno belle delle foto del vero Endre Friedman, ungherese nato a Budapest, da un sarto ebreo e fuggito a Parigi? E chi se ne accorge oggi, ad anni di distanza, che dietro ad ogni istantanea, in realtà ci sia la difficoltà di Capa eterno fotoreporter senza ingaggio, senza passaporto, senza visto, scialacquatore di anticipi, con la fiaschetta di alcol accanto alla sua Contax?

Ecco, con Capa per la prima volta il giornalismo si trova a scegliere fra «word man» e «picture man», fra parole e immagini. Eppure Capa sembrava quasi profetizzare la fine della fotografia per eccesso di realismo. È infatti vero che ogni foto che immortala la morte, il dolore alla fine non fa altro che allontanarcene e Capa lo aveva compreso quando decise di non fotografare i campi di concentramento: «Ogni nuovo fotogramma di orrore serviva solo a diminuire l’effetto totale della tragedia». Fuori fuoco, sgranate dunque, le foto di Capa sono quelle che pur con qualche difetto di autenticità ci restituiscono non la guerra, ma quella che John Steinbeck chiamava «l’emozione della guerra». Non è vero come si ripete spesso utilizzando una frase dello stesso Capa che «se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino».

Il ‘vicino’ di Capa è stato un balletto con la guerra. Attenzione però, questo non è vivere. Lo sapeva anche Capa che adduceva la sua professione come scusa ad una vita sedentaria alla stupita Ingrid Bergman. La vita finisce per Capa nello scatto in mezzo al disordine del mondo. Inizia nuovamente se da quel disordine ne sei uscito vivo. Dopo la liberazione di Parigi, Capa dice: «Nessuna immagine sarà pari a questa, nessun’altra invasione pari alla Normandia». Neppure Capa sarà più Capa. Tutte le donne di Capa, Gerda Taro, la graziosa Pinky che sarebbe Elaine Justin, o la stessa Bergman, nella sua vita sono solo soste, camere d’albergo, mai più interessanti di un rullino. L’unica per cui valesse la pena alzarsi la mattina era scomparsa una mattina di fronte a due bottiglie di latte. Il suo necrologio era l’apertura di un giornale: «La guerra in Europa è finita», con lei, se ne era già andato anche Capa.