Alessandro Borghi: incontro a tutto campo

Alessandro Borghi: incontro a tutto campo

Le origini, Roma, la vita di prima, la gratitudine, l’impegno. E ancora: l’amicizia, i ruoli, il mestiere d’attore, e un possibile futuro lontano dal cinema. Alessandro Borghi si racconta su Icon 61.

Foto: Max Vadukul
di Valentina Della Seta

Incontro Alessandro Borghi su Zoom in un tardo pomeriggio di estate dopo la quarantena, ha un paio di baffoni scuri e i capelli decolorati, rasati ai lati e poco più lunghi sopra: «I baffi e il biondo sono un esperimento per un film a cui dovrei prendere parte tra qualche tempo, per abitare il personaggio che ho in testa e capire se può funzionare. Ma questo biondo è complicato da gestire, quindi non so…», dice.

Borghi mette insieme in questa prima frase due delle caratteristiche che, talento a parte, lo rendono grande: la ricerca di un’adesione profonda ai personaggi e la capacità di mantenere, dopo anni di successo e celebrità, un pragmatismo da ragazzo di strada che non è una posa. «Il film sarà un’opera prima. Ho bisogno di lavorare a un progetto che sia al di fuori dei sistemi commerciali del cinema, anche se ultimamente ho partecipato a tante cose belle», racconta. Borghi viene dalla serie internazionale Sky Diavoli tratta dal romanzo di Guido Maria Brera, nella quale recita in inglese, e ha finito da poco di girare alcuni episodi di Suburra di Netflix che erano rimasti in sospeso a causa dell’emergenza degli ultimi mesi: «Come tutti, avrei preferito che non ci fosse stata nessuna pandemia, ma dalle settimane di clausura sono uscito riposato e riconciliato con me stesso. Se avessi la possibilità di fare due mesi di quarantena l’anno, ovviamente senza il virus, ci metterei la firma. In una vita serrata di ritmi al servizio del lavoro e delle pubbliche relazioni, il fatto di avere avuto una giustificazione per stare chiusi in casa è stato liberatorio. Ho visto film e serie, ho letto con attenzione libri e copioni, mi sono allenato. Ho parlato molto con Irene, la mia fidanzata. Di solito per parlare di tutta quella roba ci mettiamo mesi, vivendo lontano non riusciamo facilmente a passare così tanto tempo insieme».

Da bravo ragazzo romano affezionato alle origini, Borghi non si è allontanato troppo dai luoghi in cui è nato e cresciuto, i quartieri popolari a ridosso del centro in cui hanno convissuto negli ultimi cento anni malavita, lavoratori e famiglie alla conquista di una minima ascesa sociale: «Mio padre, impiegato, è un garbatellaro secolare, mia madre ha lavorato come cuoca ed è di Tor Marancia, io sono cresciuto a Viale Marconi. Quando sono andato a vivere da solo sono tornato alla Garbatella, ci sono stato per sei anni, ora mi sono spostato di poche centinaia di metri in linea d’aria, sulla via Ostiense. Sono decisamente a favore di Roma Sud», dice sorridendo.

Quella di Borghi è anche una storia emblematica di impegno e gavetta. Numero 8/Aureliano di Suburra di Stefano Sollima e Vittorio di Non essere cattivo, ultimo film di Claudio Caligari (entrambi del 2015), non sono arrivati dal nulla: «Ho lavorato come cameriere, muratore, commesso in un negozio di abbigliamento, guardiano notturno. Quest’ultimo impiego lo sfruttavo per guardare anche sei film di seguito», dice. «In seguito ci sono stati anni di televisione in cui non mi ha notato nessuno». Borghi debutta nel cinema nel 2011 con Cinque, noir metropolitano indipendente del regista romano Francesco Maria Dominedò. Quattro anni dopo arriva Suburra di Stefano Sollima: «Nel corso del tempo ho avuto l’immensa fortuna di incontrare persone e partecipare a film che mi hanno cambiato la vita», dice. «Oggi sarei un pazzo o un ingrato se dicessi che tornerei indietro, ma mi capita di pensare con nostalgia alle cose di prima; penso alle relazioni con gli altri, come i colleghi sorveglianti con cui andavo ad aprire i cancelli e poi guardavo film fino alle quattro di mattina. È il mio carattere, mi piacciono i ricordi».

Gli domando quale sia, tra i personaggi che ha interpretato nel corso del tempo, quello a cui si sente più legato. «Ci sono ruoli che per motivi diversi hanno influenzato la mia carriera e la mia vita personale», racconta Borghi. «L’attore non è un mestiere qualunque, quando decidi di regalare per tre mesi il tuo cervello a un personaggio non puoi pensare di liberartene facilmente. Se proprio dovessi sceglierne uno, direi Vittorio di Non essere cattivo. È quello che ha segnato di più la mia vita. Ancora oggi, dopo anni, la gente mi ferma per strada e mi parla di Vittorio. Inoltre quel film mi ha regalato un fratello, Luca Marinelli».

Amicizia e fratellanza sono parole ricorrenti nelle dichiarazioni di Alessandro Borghi: «Il successo può portare solitudine, io ho uno zoccolo duro di amici fraterni che frequento da sempre. Sono tanti, per contarli non bastano le dita di due mani. Ho conosciuto molte persone che amo grazie al mio lavoro, ma temo si corra il rischio di sentirsi soli a circondarsi esclusivamente di persone arrivate dopo essere diventati famosi».

In ogni caso, la celebrità o i soldi non sembrano essere mai stati il motore della sua carriera. Arrivano prima altre cose, hanno a che fare con l’arte e con l’impegno civile. Nel 2019 Borghi ha vinto il David di Donatello trasformandosi in Stefano Cucchi per Sulla mia pelle, il film di Alessio Cremonini sugli ultimi giorni di vita di Cucchi: «Interpretare Stefano è stato faticoso solo dal punto di vista fisico. Per il resto, avevo ben chiaro cosa volevo raccontare di lui, non è stato difficile. Ho avuto sempre in mente la sorella Ilaria e il resto della famiglia, volevo regalare loro un’ora e quaranta minuti con il fratello e il figlio che gli è stato portato via. Sulla mia pelle racconta una storia che trovavo necessario fare arrivare a più persone possibile». Tra i personaggi di Borghi non sembra essercene nessuno che viva A cuor leggero (come la canzone di Riccardo Sinigallia che chiude Non essere cattivo): Aureliano, Vittorio, Stefano, Remo di Il primo Re di Matteo Rovere, e Boccione di Il più grande sogno di Michele Vannucci: «Spesso uso i personaggi per esorcizzare una parte di me che ha bisogno di piangere e di stare male», dice Borghi. «Se decidi di “essere” un attore, il tuo lavoro diventa una sorta di psicanalisi. Per lavorare così devi scendere a patti con i tuoi punti deboli. Non esiste più niente di privato. Non c’è un dolore o una gioia che puoi permetterti di tenere per te, tutto deve essere messo al servizio del pubblico. Ogni esperienza viene buttata in un calderone, rimescolata, rimodulata e usata per i personaggi. I film sono occasioni per affrontare cose che sono riuscito a evitare nella vita reale, come la depressione, la sofferenza o la violenza. Nella realtà mi sento lontano da ogni forma di violenza fisica e verbale, non credo portino da nessuna parte, ma c’è una parte di ombra che mi trovo a esprimere con la recitazione».

Borghi ha 33 anni, è ancora molto giovane. Ma un attore, come gli sportivi professionisti, è alle prese con un mestiere molto legato alle prestazioni e all’aspetto fisico: «La componente anagrafica non mi spaventa, sono abbastanza sicuro che questo lavoro a un certo punto smetterà di interessarmi così tanto e io smetterò di interessare a lui. Sono assolutamente a favore del ricambio generazionale, e so che per fare posto a qualcuno un posto deve essere liberato. Non soffrirò all’idea di dovermi inventare un altro tipo di vita. Ho già almeno tre o quattro strade alternative, completamente diverse da questa. Mi piace pensare che un giorno qualcuno si troverà a dire: “Per questo ruolo di sessantenne perché non chiamiamo Borghi? Ok, ma dove sta? Ah giusto, vive in Indonesia da vent’anni…”».

A quanto pare, Borghi non ha nessuna paura di invecchiare. La cosa più importante per lui sembra essere evitare di trovarsi a ripercorrere strade già battute: «È nei cambiamenti che trovo la possibilità di re-innamorarmi delle cose. Mi sono reso conto che ogni volta che ho desiderato tantissimo qualcosa e poi mi è stato sbattuto in faccia, ha inevitabilmente perso di interesse», spiega. «Già adesso ho un rapporto conflittuale con questo lavoro, a fasi alterne devo scappare, smettere per un po’, fermarmi per sei otto mesi per sentire di nuovo la fame di recitare». Le derive scelte da Borghi per farsi tornare la fame non sono mai prevedibili. Come nel caso di Diavoli, in cui recita in inglese: «Accettare di recitare in inglese nella serie Diavoli una delle cose più spaventose che mi siano capitate. Ma è anche uno dei motivi per cui ho accettato di farlo. Con l’esperienza non sono diventato più sicuro di non sbagliare, è che se sbaglio non è più così importante come nel passato. Non sono più ossessionato dalla perfezione della performance da diverso tempo. Ora preferisco rischiare. Quando penso “non so se ci riesco” è la volta buona che provo a farlo».

Articolo pubblicato su Icon 61

Di Andrea Tenerani

Fotografie di Max Vadukul

Grooming: Giulio Ordonselli.
Styling assistant: Federica Arcadio.
Si ringrazia Hotel de Russie, roccofortehotels.com