I 40 anni di Shining, pilastro visivo della doppiezza dell’anima
Foto: Warner Brothers/Getty Images

I 40 anni di Shining, pilastro visivo della doppiezza dell’anima

di Andrea Giordano

Buon compleanno “Shining”: il film, che uscì esattamente il 22 dicembre 1980, compie oggi 40 anni.

La sfida tra il bene e il male, tra la lucidità e la follia, e quella luccicanza, lo Shining appunto, quel potere di sentire e forse anticipare le cose. Quarant’anni fa, era esattamente il 22 dicembre 1980, il capolavoro diretto da Stanley Kubrick usciva anche in Italia, seminando terrore, fascino, raccontando, ancora una volta, la perfezione maniacale di un regista (ci mise tre anni a girarlo) quanto la non approvazione dello scrittore originale del romanzo, Stephen King, che lo partorì nel 1977. Due giganti a confronto, due icone culturali in contrapposizione, per rivendicare, da prospettive diverse.

Eppure, da allora, lo Shining cinematografico è diventato anch’esso un pilastro visivo ed immortale, esplorando la natura nascosta, psicologica e primitiva dell’essere umano, dell’uomo, così la sua doppiezza e fragilità. Come a dirci: la violenza esiste, ed esisterà, ma può essere repressa, combattuta, anche con metodi estremi. Successe in Arancia Meccanica diretto dallo stesso Kubrick, ma può crescere gradualmente, mettendo radici, per poi di fatto, eternamente, innescare il corto circuito e collocarsi in uno spazio temporale impreciso.

Luoghi dunque come identità, simboli come indizi, rimandi come delizie, l’Overlook Hotel, il labirinto esterno, i corridoi interni, che diventano il centro del mondo, uno spazio claustrofobico, dove agire e presagire oscure presenze e misteri: il giallo del precedente guardiano, Delbert Grady, impazzito al punto di sterminare l’intera famiglia, moglie e due figlie, le famose gemelle, unicamente per punirle. Sono spiriti, allucinazioni, forse qualcosa di più, forse sono veri. Ma riappaiono in quell’isolamento invernale, in cui le ore, i mesi, non passano mai, e nel quale il protagonista, Jack Nicholson (doppiato da un grande Giancarlo Giannini), sublime nei panni dello scrittore Jack Torrance, inizia a comprendere quanto stia cambiando, senza distinguere più quello che è reale. Prova a scrivere anch’esso il suo romanzo, ticchettando a macchina, per poi lasciare su carta solo una frase: “Il mattino ha l’oro in bocca”, un segnale d’allarme, il blocco creativo, il punto di rottura, forse solo il grido squilibrato riguardo una mente già deteriorata e portata all’eccesso.

La sua missione diventa allora la stessa del precedente inquilino, uccidere, eliminare la minaccia, la moglie Wendy in primis (bravissima Shelley Winters), anche se in questo processo non ha tenuto conto invece del figlio, Danny. È lui ad avere la luccicanza, è l’arma per lottare, per non essere sottomessi al potere malefico di chi ci domina. Kubrick monumentale, nel realizzare dunque un film che non è mai invecchiato, ma semmai tende a ringiovanire, quasi in una trasformazione (al contrario) alla Benjamin Button, fermandosi al suo stato brado, rinnovato, ricco di insidie, dettagli, simmetrie, chiavi di lettura, incontri surreali, salti epocali (gli anni Venti), ricordi alterati e sovrannaturali. A quei colori, i rossi dominanti, si alternano poi scene madri: il sangue esploso dall’ascensore, il triciclo del bambino, la stanza 237, il Jack-Lupo cattivo munito di ascia, il barman, i silenzi profondi, rotti, mutevoli, le musiche (a partire dall’intro) a volare alto, sull’inquietudine del paesaggio e dell’anima.

Shining è un gioco a scacchi, per vivere o morire, per rimanere prigionieri o evadere, in cui è lo stesso spettatore a dover fare anche la sua mossa, semplicemente per esserci, partecipare, esserne travolto, magari provando a ricomporre i pezzi, alla ricerca della logica di ogni singolo elemento. E magari trovare ulteriori ispirazioni.

In 40 anni sono usciti libri, saggi, critiche, riflessioni, mono-biografie, archivi illustrati, edizioni estese, un sequel (Doctor Sleep), documentari (Room 237), omaggi e tributi, dai Thirty Seconds To Mars, il gruppo formato da Jared Leto (il videoclip The KillBury Me), a Steven Spielberg, che in Ready Player One porta, ammirati, i suoi avatar proprio all’interno di quell’universo, dove, sdrammatizzando, qualcuno si domanda: “non l’ho mai visto Shining: fa tanta paura?”. Provare. Perché la bellezza di questo viaggio sta nel perdersi nei suoi meandri, senza però chiudere gli occhi.