Abbiamo chiesto all’autore romano di raccontarci il suo ultimo romanzo: una storia che sa di ballata, il racconto di un uomo e della sua furia omicida in una narrazione nuova, che mischia cronaca nera, mito e leggenda.

Ballata per le nostre anime è l’ultimo romanzo di Mauro Garofalo, uscito pochi giorni fa per Mondadori. E’ la storia di Simone Pianetti che il 13 luglio 1914, imbracciando un fucile, uscì di casa e compì sette omicidi. Ne seguì la fuga, un alone di mistero e la leggenda che è arrivata fino ai giorni nostri e che, mischiando biografia, invenzione e pathos, Garofalo riporta sulle pagine bianche di un romanzo che è classico e sperimentale insieme, che scava nell’intimità di un giustiziere latitante, che racconta di luoghi e rifugi, echeggiando di amore e assenze.

Abbiamo fatto una chiacchierata con lo scrittore, giornalista e fotoreporter nato a Roma, cresciuto in Maremma e di base a Milano, che ha esordito per Frassinelli, nel 2016, con Alla fine di ogni cosa.

Parliamo subito di Ballata per le nostre anime: quanto ha impiegato a vedere la luce e da cosa sei partito a scriverlo?
Negli anni ho stabilito una sorta di cantiere di narrazione. La parte di ricerca di solito è quella che porta via più tempo, perché in base alle parole che trovo cerco di organizzare la cornice del romanzo, per capire quanto può durare, se 180 o 300 pagine, quindi la misura. Poi esiste un tempo variabile rappresentato dal contatto con il protagonista, per stanarlo dalle voci dentro. Mi impongo poi un passo, un ritmo di scrittura che orienta lo stile, il modo in cui vorrei che fosse letto, e per farlo ascolto molta musica. In questo caso diciamo che in tutto ci ho messo 6 mesi per la prima fase, un paio per la seconda, e altri 5/6 mesi per chiudere il testo. Sono partito dall’incipit, e dalla volontà di scrivere di piccole scene che, sommate, avrebbero restituito la trama. Un po’ come accade ne I racconti dell’Ohio di Sherwood Anderson.

Ecco, a proposito di riferimenti: se dovessi darmi un titolo della tua formazione, come scrittore e prima di tutto come uomo…cosa diresti?
Il libro a cui devo la rivoluzione interiore della mia fase adulta è senza dubbio i Diari 1917.1973 di Fernanda Pivano. Mi ha fatto ripartire da zero. Ho riletto Francis Scott Fitzgerald, Gertrude Stein, e mi hanno fatto re-incontrare la poesia, ma pure immaginare un periodo in cui scrivere era anche andare in giro, ballare, fare festa, chiacchiere, e poi compassione, alcol, fumo e depressione. Di romanzi ce ne sono molti, su tutti oggi direi Richard Powers con Il sussurro del mondo, Jonathan Franzen con Le correzioni, Ali Smith con Autunno.

Curiosità inguaribili che ho: qual è il tuo orario e il “safe-place” in cui scrivere?
Le storie dettano l’agenda. Ho scritto libri solo di notte. Altri di primo pomeriggio. Per la Ballata il momento migliore è stato la mattina presto, caffè alle 6 fino all’ora di pranzo. Al tavolo di legno della cucina. Con lo sguardo fuori, dove c’è un ulivo e un prato e in fondo il rumore dei treni che passano sui binari.

A proposito di sguardi sull’esterno, come ci si sente ad avere un romanzo sugli scaffali delle librerie di tutta Italia sul finire – ce lo auguriamo – di un lockdown serrato?
A uscire in concomitanza di una pandemia mondiale, intendi? Beh, direi che no, non ero preparato. Dopo quasi tre mesi ora entriamo in una nuova fase. Ci sarebbe da dire, forse, qualcosa sulla parola ‘fase’, che ha sostituito futuro ma ci porterebbe lontano. Detto questo, è capitato. Quello che possiamo fare è vivere i giorni ognuno facendo il proprio mestiere al meglio. Per quanto riguarda l’uscita, all’inizio mi sono domandato per chi avevo scritto, e perché, se avesse ancora un senso scrivere libri. Ovviamente, non mi sono risposto. Quello che posso dire è che mi sento fortunato a vedere il libro stampato. Molti titoli non verranno pubblicati, visto il lockdown, e anche qui ci sarebbe da aprire la questione più ampia della Cultura, l’importanza delle storie, della musica, del teatro nelle nostre vite, delle serie televisive e dei fumetti senza i quali, in condizioni di isolamento forzato, forse avremmo sofferto ancora di più la costrizione, il trauma della rinuncia alle libertà personali, che stiamo ancora scontando.

Che ruolo prefiguri, per libri ed editoria in generale, nei prossimi mesi? Sarà più una sfida, una battaglia, un’opportunità o che altro?
Per i libri, il ruolo credo sia quello di sempre. Dai graffiti a Gutenberg, quanto ci ha detto sull’amore Romeo e Giulietta? Continueremo a raccontare storie, in modi diversi, fino alla fine dell’umanità. Altro discorso è l’editoria: io sono solo un numero di un mercato più grande. Guardiamo con apprensione ai dati, a tutti i ‘meno’ di questi difficili mesi. Ma credo che il punto non sia il dito davanti ma la Luna che c’è dietro. Siamo uno dei popoli che leggono meno, il tempo che dedichiamo alla lettura è infinitamente più basso di quello dei finlandesi, ad esempio. Detto questo, forse, la percezione del libro è ancora scolastica, quasi un obbligo a cui da adulti ci si sottrae volentieri. E invece, ecco, forse se c’è una questione che ci pongono questi tempi complessi è proprio capire quali sono le cose senza le quali non potremmo vivere. Non il lavoro, ma le passioni. A parte gli eremiti, credo che in molti risponderebbe le parole.

Parlando di ripartenze, a questo punto ti domando: Cosa farai quest’estate?
Se sarà possibile, andrò nella casa che fu dei miei nonni, in un piccolo borgo sperduto in Maremma. Mi piacerebbe andare un po’ al mare e fare lunghe passeggiate nei boschi. A margine, spiluccare pane e olio, bere qualche bicchiere di vino rosso e sgranocchiare tozzetti (biscotti simili ai cantucci toscani ma nella variante povera). Poche cose ma buone. E poi comprerò molti libri e leggerò. E cercherò di scrivere.