In conversazione con Antonio Orlando, 29enne new entry della terza stagione della serie Baby, in onda su Netflix. Tra maestri di vita, teatro, cinema e sacrifici, finalmente è arrivato il suo momento.

Siciliano di nascita e romano d’adozione, ma «legatissimo a Palermo», ci tiene a dire, la città d’origine del padre. Antonio Orlando, 29 anni, è l’esempio dell’attore concreto, piedi ben piantati a terra, e caparbietà da vendere nel provare a misurarsi in ruoli e progetti lontani dalle sue corde. Tantissimo teatro nel DNA, sperimentato e calcato, diretto da nomi come Anna Marchesini e Lorenzo Salveti, e che ora ha ripreso con La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza (a novembre sarà al Teatro Vascello di Roma), uno spettacolo a tre incentrato su una famiglia di campagna, ferma nel tempo, e lui nei panni dello scemo del villaggio. Il palcoscenico come amore a prima vista insomma, portato avanti, però, insieme alla tv (Non uccidere, La mafia uccide solo d’estate) e al cinema. Lì, nel 2017, è arrivata l’occasione d’oro (sfruttata) ne Il primo re di Matteo Rovere, nel ruolo di Erenneis, a cui è seguita quella ne Il traditore di Bellocchio. Prossimamente, seppur in una piccola parte, lo ritroveremo in Con le mie mani di Fabio Resinaro, incentrato sul giorno in cui Pierluigi Torreggiani venne ucciso, e il figlio, Alberto, da là rimase paralizzato. Ora, però, c’è l’avventura da ispettore–new entry della terza (e ultima) stagione di Baby, in onda su Netflix, in cui il “suo” Matteo Comini prova a fare ordine tra attualità e finzione.

Una “prima volta” quella di Baby. Com’è andata?
Il mio personaggio doveva essere una sorta di collante, di trait d’union, tra la realtà giornalistica della faccenda, e il linguaggio della fiction. Nonostante sia giovane, visivamente volevano qualcuno che potesse comunque confondersi nell’ambiente liceale delle due ragazze, ma contemporaneamente mostrare di sé un lato estremamente autoritario. Pietro è già un ispettore, sotto di lui ci sono diversi agenti e colleghi, possiede un carattere forte. I registi hanno cercato una linea narrativa che fosse in qualche modo compatibile con entrambe le sfumature del personaggio, anche “fraterno” nei confronti di Ludovica, interpretata da Alice Pagani.

Conoscevi già questa storia a livello di cronaca?
Quando uscì la notizia, frequentavo il liceo, ero più o meno loro coetaneo. Per me fu una cosa sconvolgente, sapere che in quel quartiere alcune ragazze, addirittura più giovani di me, potessero intraprendere una strada del genere, con l’aggravante che la madre di una delle due fosse abbastanza a conoscenza dei fatti.

Facciamo un passo indietro. Quando ti sei accorto di poter davvero poter intraprendere questo mestiere?
La mia è stata una scelta consapevole, maturata nel tempo. Il sogno della recitazione mi ha accompagnato fin dagli anni del liceo, poi effettivamente è diventato realtà una volta che sono entrato all’Accademia Silvio D’Amico di Roma. Lì ci fu un aut aut, dovevo rinunciare e congelare gli studi all’università, per dedicarmi completamente alla carriera di attore.

Tu ti eri iscritto a Giurisprudenza, come mai?
Feci solo alcuni esami tecnici, ma è comunque una facoltà dallo sfogo umanistico, mi piaceva. Ci ho passato i primi due anni, seguendo l’approccio filologico, diciamo. Posso dire che vestendo i panni di alcuni personaggi, difendendo alcuni loro punti di vista, credo di essere diventato un ottimo avvocato di alcuni di loro (sorride, ndr). In Baby, per quanto Pietro Comini rappresenti la legge, in certe situazioni opera al di sopra di un protocollo, per un bene maggiore, la difesa di una ragazza, alla quale poi si affeziona. È raro vedere un rapporto del genere.

Quali sono stati i tuoi grandi punti di riferimento?
Ho incontrato moltissimi maestri sul cammino, a partire dal Direttore dell’Accademia, Lorenzo Salveti, mio maestro per tre anni. Sapeva introdurti nell’ingranaggio, nel meccanismo, per poi far sì che, come attore, si arrivasse a una propria indipendenza di pensiero. La maggior parte delle cose che ho imparato arrivano da lui. Viene dall’epoca d’oro del teatro, le sue erano messinscene estremamente rigide, quasi dei carillon, ma in ogni suo spettacolo si poteva davvero sperimentare al meglio l’esperienza recitativa. Ed è poco dopo Pericle, principe di Tiro che fui chiamato e preso a Torino per la serie Non Uccidere.

Da lì fu tutto più “facile”?
Non dico che la strada sia stata spianata, però ho avuto subito un assaggio di quello che sarebbe stato il mondo del lavoro. Sto maturando il mio gusto, scrivo delle cose, mi sento giovane e acerbo per altre, tipo la regia, spero di potermici dedicare un giorno. Il sacrificio non è stato fare altri lavori per mantenersi, ma quello di restare, e non diventare pazzo, aspettando delle risposte, sopravvivendo ai periodi di inattività.

Riguardo agli attori c’è qualche modello di riferimento?
La verità? La mia generazione. Alessandro Borghi, Gabriel Montesi, sono prima di tutto amici. Credo che per far bene in questo mondo bisogna guardare anche gli altri, e non solo se stessi.

In Baby vieni fuori autoritario, ma controllato. Merito (anche) della disciplina maturata nel teatro?
Totalmente, quella aiuta a creare una forma. Ciò che ho imparato in questo mestiere arriva proprio dal palcoscenico, dal punto di vista interpretativo e comportamentale. Il teatro, come dire, è un luogo molto più rigido rispetto al set cinematografico o televisivo, in quanto la maggior parte della responsabilità è proprio in mano agli attori, sei tu lì a gestire ogni dettaglio, non gli altri.

Nessun rituale prima di andare in scena?
Sono molto scaramantico. Direi che seguo i classici rituali: non bisogna fischiare, perché “i fischi chiamano fischi”, ma in realtà cerco di rilassarmi ripercorrendo le parti fondamentali spettacolo, e preferisco vivere le novità. La bellezza è l’imprevisto, magari anche un vuoto di memoria può essere fruttuoso per il bene di tutti, ti si riattivano una serie di istinti, che quando vai in automatico sono come sopiti.

Quindi è bello buttarsi qualche volta?
L’idea di non avere paura, lanciarmi, assaporare un certo tipo di ebrezza persiste, è vero, ma negli anni sono diventato comunque pavido. Ogni carriera è aleatoria, c’è una concorrenza spietata, in qualsiasi campo. All’inizio pensavo che l’unico luogo in cui potessi, come dire, mettermi alla prova realmente in questa società, fosse proprio il mondo della recitazione. È diventato un lavoro, pur sempre trainato da una passione, la chiave che dà l’opportunità di conoscere delle cose a cui non ti approcceresti mai.

Ad esempio?
Per fare Pietro Comini sono andato in questura a parlare, informarmi, per Matteo Rovere ho riaperto i dizionari di latino e greco del liceo, studiando l’antologia per vedere se ci fossero delle connessioni con la sceneggiatura, recentemente, per un nuovo personaggio, mi sono avvicinato al mondo dei Sinti, fermandone alcuni per strada. Il fascino del mestiere è la possibilità di continuare a fare ricerca, non si smette di imparare.

Arrampicata e parkour, due cose che hai provato: ami il rischio.
Fino a cinque–sei anni fa ti avrei detto sì, prima di rompermi la seconda volta la gamba, oggi sono più accorto (ride, ndr). Non ho smesso di fare sport sia chiaro, ma neanche mi piaceva farmi male e perdere progetti importanti, cosa che mi è successa. Il parkour è una filosofia di vita, l’ho voluta abbracciare. È libertà sì, ci si mette in una condizione rischiosa, per poi trovarne il controllo.

Un augurio che ti vorresti fare da adesso?
Di continuare a lavorare… e magari essere chiamato da maestri come Takeshi Kitano, un artista a tutto tondo, capace di partire dal cabaret tradizionale giapponese e diventare uno dei più grandi di sempre.