Ospite al recente Ischia Film Festival, Marco D’Amore, attore e acclamato regista de “L’Immortale” (premiato col Nastro d’Argento), ci svela qualcosa sulla sua rinnovata avventura, ma da showrunner, in “Gomorra 5”. Tra letture, sogni, riferimenti, come Toni Servillo, ecco la sua visione del mondo che lo circonda.

Provare a incontrarlo per strada, e far finta di non riconoscerlo. Sarebbe impossibile, e perdereste in ogni caso. Marco D’Amore, attore, sceneggiatore, produttore, è oggi anche uno dei volti (“in erba”) maggiormente di spessore anche dietro la macchina da presa, dove grazie a L’immortale, premiato recentemente con il Nastro d’Argento come miglior regista esordiente, si è imposto alla grande, confermando il suo sguardo di grande autore. Anima colta, amante di autori come Bukowski, dotato di una forza narrativa, e d’interprete che lo hanno portato nel tempo a diventare un personaggio di culto, grazie al ruolo di Ciro Di Marzio, nella serie Gomorra. Una creatura più che mai vista, che dopo la sua ormai nota uscita, lo vedrà trasversalmente nei panni di showrunner, «una di quelle sfide a cui non si rinuncia», dice. Nel frattempo, ospite all’ultimo Ischia Film Festival diretto da Michelangelo Messina, ci racconta di se, riguardo la felicità di ritrovare il contatto col pubblico, in attesa di vederlo pure un nuovo progetto internazionale, Security, tratto dal romanzo di Stephen Amidon (lo stesso de Il Capitale Umano), in cui è il protagonista, accanto a Giovanna Mezzogiorno e Fabrizio Bentivoglio, terminato proprio prima dell’inizio del lockdown.

Da un periodo del genere ne esci più rafforzato o pieni di domande?
Era da quando avevo 18 anni che non stavo fermo in un posto per tre mesi. Egoisticamente, come certi artisti riescono a fare, ho utilizzando la mia casa come una sorta di avamposto, osservando ciò che stava succedendo intorno, pensando a come poter impegnare quel tempo, facendo leva, se vuoi, anche nelle difficoltà, su una certa dose di “cinismo”. Dunque, oltre a lavorare su alcuni progetti, mi sono riappropriato di film, tanti classici, biografie, letture, tra cui alcune di Domenico Rea, riuscendo finalmente a finire Il selvaggio di Guillermo Arriaga, un testo clamoroso da consigliare a chiunque.

Toni Servillo, nella stessa sera in cui hai vinto il Nastro d’Argento, è stata celebrato col premio alla carriera. Tu hai cominciato grazie a lui.
Avevo 18 anni.. Sai, le coincidenze che legano la vita, la mia carriera, e quella di Toni, sono continue, poterlo applaudire diventa poi una gioia incredibile. Recentemente, tornando da una tournée in Francia, recitava Jouvet, la sera stessa, senza dirmi nulla, è andato da solo in un cinema di Caserta, si è pagato il biglietto, come fa di consueto, per vedersi proprio L’immortale. Mi ha chiamato, dicendo quanto gli era piaciuto, ridendo siamo arrivati a una conclusione.

Quale?
Riguardo al fatto che, prima o poi, faremo un film insieme. In realtà è un sogno vero e lo sarebbe, in generale, qualunque tipo di progetto, tornando a lavorare in teatro, o al cinema, parliamo davvero di un’esistenza trascorsa l’uno accanto all’altro.

Gomorra 5, non si parla d’altro. Che impegno sarà?
Dal punto di vista della promessa fatta al pubblico, e della percezione che ho, sarà la stagione più difficile, complessa, sicuramente la più ‘pericolosa’. Le precedenti sono state il ritratto di un mondo che percorreva parallelamente il racconto della realtà, dopo col film abbiamo operato invece un “tradimento”, dal punto di vista del linguaggio, ma Gomorra non è mai andata indietro nel tempo, abbiamo perseguito una continuità. Le aspettative, dunque, si sono alzate in maniera impressionante. Noi stiamo lavorando praticamente 24 ore su 24, tra conversazioni, meeting, riunioni, questo per restituire alla gente qualcosa di indimenticabile. Ho una responsabilità altissima: curerò la direzione artistica, la regia, la supervisione editoriale, e sento il rischio, però è quello delle grandi avventure che ti fanno battere il cuore, quindi me la carico volentieri sulle spalle e farò di tutto per non deludere.

L’idea di iniziare a scrivere, dirigere, è un modo, anche, per mostrare altre sfumature?
Totalmente, ma non c’è la necessità di raccontarmi, non credo di essere così interessante da doverlo fare (ride, ndr). Invece è un desiderio fisiologico col quale sono cresciuto nel tempo, ovvero narrare storie, proporre una mia visione della vita, dei conflitti, del dolore, delle passioni, quello mi affascina molto più che semplicemente “interpretare”. Sento questa natura e sto cominciando ad assecondarla.

Qual è la sfida per chi, come te, si impegna davvero a metterci sempre la faccia?
Il rischio lo corriamo tutti i giorni. Sfortunatamente questo mestiere diventa una eco, quindi le parole assumono un significato cruciale. Bisogna pesarle e saperle dire, rischio altissimo, non mi riferisco unicamente alle interviste, ma si può dialogare attraverso un progetto, un film, la lettura di un testo, uno spettacolo a teatro. Parlare alle persone deve costare fatica, e per riuscire bisogna arrivarci con una continua voglia di perfezionamento, non mi riferisco solo al talento, alle capacità e possibilità, ma anche di un approfondimento intellettuale, culturale, che ti metta nelle condizioni di poter affrontare chi hai davanti. La gioia, poi, sta nell’intimità e “nell’orgasmo” continuo che, a me personalmente, può arrivare da un personaggio semplicemente, dal discutere con i miei collaboratori su una storia, una serie tv.

L’anno prossimo taglierai il traguardo dei 40 anni: come ci arriverai?
Faccio mia la lezione di Eduardo De Filippo che a 23 anni si scriveva già le commedie per quando ne avrebbe avuti 70, intendendo la vecchiaia non come un momento di depressione, ma di saggezza, e il più lungo dell’esistenza, in cui un attore ha la giusta consapevolezza per poter amministrare il proprio lavoro. Non guardo l’età che avanza, sono invece interessato al passare degli anni, e a come li riempio di cose, bellezza, interessi. Poi, certo, mi giro e rivedo ciò che ero da bambino, e in fondo alcuni aspetti li ritrovo ancora nella semplicità, quotidianità, nello stupore, rimasto immutato, quando mi imbatto, oggi, nel talento altrui. Da ragazzino rimanevo a bocca aperta guardando Toni, Danio Manfredini, certi film al cinema, ma quel piacere è rimasto identico alla prima volta quando, a nove anni, sono salito sul un palco, ho visto il buio della sala, e mi sono sentito a casa mia.