Sam Claflin

Sam Claflin

Da Pirati dei Caraibi a Hunger Games fino a Peaky Blinders l’attore inglese è sempre più in ascesa, un po’ come la rockstar che interpreta nella serie tv Daisy Jones & The Six: un ruolo che si è rivelato molto impegnativo (non solo perché ha dovuto imparare a suonare la chitarra) e che gli ha cambiato la vita

di Angelo Pannofino

«Devi avere un grande ego per diventare una grande rockstar», dice la moglie dell’aspirante rockstar in una delle prime puntate di Daisy Jones & The Six. Immagino valga anche per gli attori, che lo stereotipo vorrebbe smaniosi di essere al centro dell’attenzione, poi parlo con Sam Claflin (Ipswich, 1986), che alla suddetta rockstar presta corpo e voce, e scopro che si può scegliere di fare questo mestiere anche per il motivo opposto, nascondersi più che mostrarsi: «Ego?! No. Fatico a rivedermi su uno schermo. Una delle ragioni per cui ho iniziato a recitare è che potevo non essere me stesso: non mi piacevo, non ero a mio agio col mio corpo, e quando mi si è presentata l’opportunità di indossare una maschera per essere qualcun altro, l’ho colta. Fatico a capire che persona sono, per questo preferisco osservare gli altri e copiare i loro gesti. Quando studiavo recitazione ho parlato per tre anni con l’accento del nord dell’Inghilterra solo perché i miei coinquilini venivano da lì. Volevo essere accettato: è ciò che ho sempre voluto, e ci provo ancora e ancora e ancora…».


Giacca e pantaloni
Dolce&Gabbana,
camicia Brioni

Claflin non aveva molto in comune con la tipica rockstar tormentatissima che doveva interpretare, ancor più se si considera che a tutti gli attori del cast era stato chiesto di suonare e cantare per davvero e lui non aveva mai preso in mano uno strumento. Gli è toccato rimboccarsi le maniche per entrare nelle camicie sbottonate fino al petto di Billy Dunne, personaggio nato dalla penna di Taylor Jenkins Reid, autrice del bestseller da cui è tratta la serie ora in onda su Prime. La trama segue le vicissitudini di una band degli anni 70, vagamente ispirata ai Fleetwood Mac, lungo la parabola gavetta-successone-misterioso scioglimento su cui, anni dopo, i membri fanno luce.

A complicare ancora di più la fase preparatoria ci si è messo anche il covid, che ha sospeso tutto per un anno e mezzo, ma quantomeno ha concesso a Claflin più tempo per studiare: «La parte più difficile è stata imparare a suonare la chitarra, ma neanche cantare è stato semplice, perché non è solo una questione di voce: i cantanti ci mettono l’anima. Il produttore musicale mi ripeteva “Devi pensare di essere il miglior musicista del mondo! Un sacco di cantanti non hanno una gran voce, ma credono tantissimo in ciò che fanno: è quello che fa la differenza”. Non è servito a molto: anche sentire la mia voce, oltre che vedermi sullo schermo, mi fa sentire un po’ a disagio, non ce l’ho proprio quella fiducia in me stesso, sono sempre stato un insicuro».


Giacca, tank top e pantaloni Aspesi

Quando infine sono iniziate le riprese Claflin era pronto a combattere con quel personaggio così diverso da lui, e invece… «Ho scoperto che Billy mi era molto vicino: le sue paure sul diventare padre, i suoi problemi relazionali, col matrimonio e la famiglia, con gli amici, la sua lotta per essere un artista, erano esperienze che capivo, perché ci sono passato o ci è passato un amico». Tra le esperienze conosciute solo per interposta persona c’è la tossicodipendenza, anche se, ammette, «un periodo “sex drugs & rock’n’roll” l’ho avuto anche io, come tutti: quando studiavo recitazione, dopo le lezioni andavamo a bere, dormivo tre ore e il giorno dopo ricominciavo. Così per tre anni. Incredibile la rapidità con cui recuperavo: non che fossi un alcolizzato, ma potevo bere birra all’infinito, mentre oggi faccio fatica a finire una pinta. Sto invecchiando, lo capisco dal fatto che l’hangover ora mi dura tre giorni. Da che sono diventato padre ho smesso di bere soprattutto perché non volevo sentirmi così il giorno dopo, con quella sensazione di annebbiamento e autocommiserazione».


Maglia Brioni

Oltre alla paternità, a farlo crescere ha contribuito anche questo ruolo: «È stato terapeutico. Mi avevano insegnato, o forse lo credevo, che è giusto tenersi tutto dentro, chiuso a chiave, per essere forte, per essere un uomo. Durante le riprese, invece, si è sbloccato qualcosa in me e, come dal vaso di Pandora, le emozioni hanno iniziato a straripare. In ogni scena mi veniva da piangere, anche in quelle allegre: non mi era mai successa una cosa simile».
La psicoterapia sarà anche gratuita, ma il mestiere dell’attore presenta il conto in altri modi: «Ho dovuto rinunciare a mantenere le promesse. Ai miei famigliari, ai miei figli, agli amici: prometto di esserci e poi non posso. Non so mai cosa farò tra una settimana. Le amicizie si diradano. A volte sogno un lavoro dalle 9 alle 5, una routine». Magari fare il calciatore, sogno abbandonato in gioventù a causa di un infortunio: «Mia madre, che veniva a vedermi, dice che in campo ero così teatrale e drammatico che l’aveva capito subito che avrei fatto l’attore». Non solo ego, a volte basta una caviglia rotta. 

Photos by David Bailey, styling by Edoardo Caniglia, Hair: Ken O’Rourke. Make up: Christabel Draffin. Styling assistant: Valentina Volpe