Tommy Paul

Tommy Paul

Il tennista ventiquattrenne è oggi il numero quattro degli Stati Uniti. La sua vita, la sua passione attraverso gli scatti di Bruce Weber

di Giorgia Mecca

Non è solo un tormento, un’ossessione, Open, la biografia di Andre Agassi confermata parola per parola, non è soltanto lo sport del diavolo, un corpo a corpo da cui non c’è scampo. Per alcuni giocatori il tennis può anche essere un privilegio, un viaggio che chissà dove porta. Tommy Paul ha appena compiuto 24 anni, indossa sempre un cappellino con visiera alla rovescia e il sorriso da bravo ragazzo Made in Usa. Ha studiato e si vede, dice grazie, prego, scusa per il ritardo, «you are welcome» a ogni domanda; l’egoismo dei suoi colleghi non lo ha contagiato, non si è fatto divorare dallo sport che si è scelto. Il tennista numero 33 del ranking mondiale sa che esiste il campo, ma anche tutto ciò che gli sta intorno. A Roma ha visitato sia il Foro Italico sia la Fontana di Trevi. Sul suo profilo Instagram, come frase che lo rappresenta ha scritto: «Rimani sveglio sempre, così non avrai bisogno di svegliarti». Per il compleanno della fidanzata Kiki Passo, sul social network ha postato una foto di loro due insieme: «Mi uccide non esserci per il più importante giorno dell’anno, ma tanti auguri tesoro. Ti amo». I professionisti ad alto livello appaiono spesso monomaniaci, focalizzati sempre e solo su loro stessi, sulla qualità della performance. La sveglia del mattino, il pranzo e la cena, il modo di respirare, persino il riposo. Ogni movimento viene svolto in funzione di una cosa sola: vincere, vedere perdere l’avversario.


Photo by Bruce Weber

Il ragazzo, che oggi è il numero quattro degli Stati Uniti ed è cresciuto con il poster di Andy Roddick, l’ultimo numero uno al mondo a stelle e strisce, in cameretta, rappresenta un’eccezione. È lui a chiamare da una delle trasferte del tour europeo, la stagione sulla terra rossa, la sua preferita. Prima di cominciare si scusa per il ritardo, due minuti: «Mi dispiace, è che facciamo una vita complicata», si giustifica, e ha ragione lui. La sua routine è composta da borsoni, aerei e jet lag, un oceano quasi sempre di mezzo tra i tornei e casa. E poi camere di albergo, ogni settimana una diversa, tanta noia in fusi orari diversi. «Il grande problema di vivere da professionista è proprio questo: dover dedicare le mie giornate a colpire una pallina. Prima di decidere di diventare un giocatore, avevo gli amici, studiavo al college, andavo alle feste, facevo tardi la sera.

Quando sono entrato nel tour, nel 2015, vedevo i miei compagni di corso fare ciò che  io non mi potevo più permettere di fare e li invidiavo. La festa per me doveva necessariamente finire, ma io non mi sentivo pronto, rivolevo indietro il mio tempo». Tommy Paul aveva 19 anni quando club e vita sociale sono stati rimpiazzati da circoli di tennis e avversari da sconfiggere. «All’inizio la mia testa era ancora all’Università della Georgia, non ero preparato a trovarmi contro ragazzi maturi che avevano dedicato la loro vita al tennis». È cominciata come un gioco, il passatempo del doposcuola in mezzo a tanti altri: «Da piccolo ho provato di tutto: basket, baseball, calcio. Alla fine ho scelto il tennis perché ero più portato e mi sembrava anche lo sport in cui era più semplice guadagnare bene». 


Photo by Bruce Weber

Va bene il talento, la passione, il tennis visto e vissuto come esperienza religiosa dai propri adepti, ma non si trascorre la propria adolescenza sul cemento di Delray Beach a perfezionare l’attacco di dritto soltanto per la gloria, o per gli applausi di Wimbledon e dintorni, lo si fa per i soldi, il ragazzo ha il coraggio di ammetterlo e non se ne vergogna. Perché dovrebbe? Nel circuito juniores, nel 2015, quando ancora il tennis era un gioco o qualcosa di simile, il tennista americano ha vinto il Roland Garros ed è arrivato in finale agli Us Open, vincendo e perdendo contro lo stesso avversario, Taylor Fritz, oggi numero 33 del mondo.

Tommy Paul è stato enfant prodige, grande speranza del tennis americano che dopo gli anni d’oro di Agassi e Sampras sta ancora cercando il loro erede, un nuovo re, «In realtà non ho mai sentito la pressione degli altri, il mio obiettivo è dare il meglio, senza stress». La storia della sua classifica mostra alti e bassi, cadute ed exploit, wild card non concesse e qualificazioni mancate, una gavetta che a volte sembra non finire mai. «Il tennis è davvero lo sport più difficile di tutti. In campo sei da solo contro un avversario che ti sta di fronte e puoi guardare negli occhi. A me non viene in mente niente di simile. Senza contare che a volte tutto si decide in una manciata di punti, rimani in campo per ore e poi si vince e si perde nel giro di un minuto». 


Photo by Bruce Weber

L’americano è entrato per la prima volta in top 100 nel settembre 2019: «Dopo le difficoltà iniziali, dopo aver scoperto che i miei amici del college avevano trovato un lavoro e messo la testa a posto, ho capito che il mio lavoro era il tennis e dunque valeva la pena cominciare a fare sul serio, fare tutto il possibile per avere successo, vincere le partite che meritavo di vincere. Con questa nuova consapevolezza, mi sono accorto che la vita dei tennisti non è affatto male». Ci sono soddisfazioni effimere e impagabili, che puoi provare dentro un campo e da nessuna altra parte: «Il momento migliore è quando ti rendi conto che stai per vincere un match che hai rischiato di perdere molte volte, quando capisci che sei rimasto in campo e hai dato tutto quello che avevi in corpo, quando ti avvicini per stringere la mano all’avversario da vincitore e pensi: «Ce l’ho fatta, e soprattutto ce l’ho fatta da solo». Le volte in cui succede fai pace con tutto il resto: i viaggi, le sconfitte, gli sbagli che hai commesso in passato e che comunque ti hanno fatto diventare la persona che sei. Ho perso due anni di carriera per colpa della mia immaturità, forse proprio per merito di questa deviazione di percorso adesso vivo con il sorriso ogni volta che vedo il mio nome nel tabellone principale di un torneo, mi godo il momento». 


Photo by Bruce Weber

Prima della pandemia che ha messo in pausa la vita di tutti, tennisti compresi, Tommy Paul aveva raggiunto il terzo turno agli Australian Open, il suo miglior risultato fino a oggi. «Stavo giocando bene, il Covid-19 ha rallentato il percorso. Come tutti, durante i mesi di lockdown ho smesso di allenarmi e di fare tornei. Ricominciare non è mai facile, devi ritrovare i colpi e soprattutto la fiducia». La verità è che non si arriva mai, ogni volta si ricomincia da capo, un altro torneo contro un altro avversario in un altro paese. Persino Roger Federer, il più grande di tutti, prima di ritirarsi in pace sente il bisogno di vincere ancora, quest’anno giocherà a Wimbledon con il desiderio di cancellare per sempre i due match point sprecati nella finale del 2019 contro Novak Djokovic: «Io da tifoso spero che lui abbandoni il campo il più tardi possibile. È bellissimo vederlo giocare, ancora oggi e ogni torneo giocato in sua assenza perde di spettacolo». Chissà se Tommy Paul a 40 anni sarà ancora in campo, non è ancora il momento di pensarci: «Mi è capitato di odiare questo sport, per tutto ciò che mi stava togliendo. Ma più passa il tempo, più mi rendo conto che sono molte di più le cose che amo. Sono un ragazzo fortunato»

Photos by Bruce Weber

Styling by Ana Brillembourg 

Hair: Johnny Caruso. Make up: Tina Echeverrì for Artist Management.net using Coty Beauty. Props stylist: Dimitri Levas. On Set Producer: JC Brillembourg. Studio/Production Manager: Hillery Estes. Styling assistant: Lauren Constantine. Photo Assistants: Zac Rupprecht, Jose Arizmendi