Toscani racconta Toscani

Toscani racconta Toscani

Intervista al leggendario fotografo, prossimo agli 80 anni (il 28 febbraio), tra vita, incontri e progetti memorabili. “La fotografia di oggi? Si adegua alle esigenze della società: in questo momento è un’azione culturale”

di Andrea Giordano

Dici Toscani e pensi alla fotografia leggendaria, unica, sovversiva, di rottura, attuale e provocatoria. Una fotografia capace di intercettare il reale, ciò che circonda, e lanciare un messaggio. Pronunci il nome completo, Oliviero Toscani, e immagini un mondo, fatto di incontri, aneddoti, invenzioni geniali, migliaia di ritratti, migliaia di storie dietro ad ogni volto. Una vita incredibile, raccolta ora nel libro-autobiografia edito da La nave di Teseo, Nave + (disponibile dal 24 febbraio), “Ne ho fatte di tutti i colori. Vita e fortuna di un situazionista”, un viaggio intenso, di parole e ricordi, scritto insieme a Tommaso Basilio e Raffo Ferraro. Il bambino, sfollato durante la Seconda Guerra Mondiale, a Clusone, arriva all’oggi, a quasi 80 anni (li compirà il 28 febbraio), attraversando con Icon oltre 60 anni di carriera e vita, divisa tra amori e scoperte, tra verità e sguardi d’artista a 360°, tra progetti memorabili e campagne storiche. Dagli anni ‘60, percorrendo Londra, New York, Roma, Parigi, la città preferita, il mondo, e i tanti incontri: Andy Warhol, Federico Fellini, Muhammad Alì, Luciano Benetton, col quale stravolse ulteriormente il mondo della comunicazione. Rivoluzione, la sua, sempre in atto e da prendere ad esempio.

Ottant’anni e un libro: come ci si sente?

L’ho dovuto rileggere tante volte e correggere, mi è quasi diventato antipatico (ride, ndr). Sono stato fortunato.

Vita e fortuna di un ‘situazionista’. Un bel sottotitolo.

Colgo dalla realtà, non ho nessuna idea. Se sono di fronte ad un problema da risolvere, faccio ciò che penso, o potrebbe servire: mi considero un situazionista estremo, non ho come dire l’assillo.

Chi lo ha?

I direttori creativi: ‘dirigono la creatività’, che pallosi, che bugiardi! Io al contrario posso a mala pena dirigere me stesso.

Una vita fatta di incontri, anche imprevisti: partiamo da Arnoldo Mondadori.

Fu divertente, lo ricordo bene. Un giorno andai al sesto piano, c’era la redazione di Linea Italiana, con i quali collaboravo, la sede era in Via Bianca di Savoia a Milano. Allora avevo difficoltà ad entrare, mi facevano passare sempre dalla porta di servizio, chi accedeva da quella principale era solo di un tipo, con un certo look, io invece ero considerato disdicevole, portavo capelli lunghi e blue jeans. Scesi al quinto e vidi l’ascensore aperto, stavo per prenderlo, ma venni immediatamente fermato da un inserviente, mi prese per il collo. “Non può entrare”, disse. Quasi subito arrivò un signore, alto, cappello e cappotto, e interviene. “Lo lasci”. Lì mi sono reso conto: era Arnoldo Mondadori, anche perché vidi correre due valletti ad aprirgli la porta in fondo.

Che successe?

Parlammo, mi chiese come trovavo la rivista, era interessato. Si rivelò molto gentile, al punto da offrirsi di accompagnarmi a casa. Abitavo a Porta Ticinese, sulla Ripa, nella casa di Franco Albini, una zona all’epoca malfamata, non come oggi. Mondadori sembrava un personaggio isolato, taciturno, forse aveva trovato in me qualcuno con cui scambiare finalmente due parole. Beh, sta di fatto che da quel momento, ogni volta che entravo in sede, mi accoglievano come un re.

Scorriamo altri personaggi: Man Ray.

Mi trovavo a Parigi, metà degli anni ‘70. Aveva l’età che io ho ora. Mi accolse in vestaglia, fumava come un turco, sembrava come un bambino, incredibile. Alla porta aprì la sua musa e compagna, Juliet Browner, indossava una T-shirt con la linguaccia dei Rolling Stones. Mi cucinarono una zuppa, cose da studenti, con i piccioni che volavano nello studio, il lucernario rotto, ‘gli facevano compagnia’, diceva. Questi artisti, si sa, sono gente del futuro, non hanno tempo, né età. Il grande artista invecchia fisicamente, però il cervello non ha età.

Andy Warhol.

Una via di mezzo tra un impiegato di Pittsburgh e un marziano. Warhol era un possibilista, ragionava, reagiva in modo sorprendente, era ingenuo. A me piace la gente ingenua, tutti i grandi lo sono in un certo senso: basta immaginarsi come pensa un bambino, noi non possiamo capirlo, ma è qualcosa che arriva dalla purezza, da un evoluzione, da una formazione, da una ricerca di comprensione. Warhol non sapeva, ma cercava, lavorava consciamente in totale insicurezza.

Federico Fellini.

Curiosissimo. Quando penso a lui veramente mi arrabbio: è rimasto anni senza poter dirigere, nessuno gli dava fiducia, perché lavorava in un certo modo. Lo hanno lasciato disoccupato, bisognava essere degli imbecilli. L’imprenditoria lo è purtroppo nei confronti degli artisti.

Lei, però, è sempre stato libero, indipendente.

Per essere liberi prima di tutto devi volerlo. E poi non bisogna, lo ripeto, lavorare con gli imbecilli. Non è il mercato che cerca te, sei tu che devi cercare qualcuno di interessante. Se si lavora con un imprenditore stupido, farai solo stupidaggini, il committente decide la qualità di un progetto, e tu come tale devi saper trovare e scegliere persone intelligenti, se no, dimenticatelo, “farai solo cagate”. Il fatto è che non bisogna accettare compromessi.

Benetton è stato un’eccezione?

Ho sempre trovato persone intelligenti, lui lo è. Ma per me è la prima regola, se no neanche inizio. Pensi alle agenzie pubblicitarie odierne, non vogliono essere intelligenti, antepongono il marketing, delle ragioni assurde, credendosi al di sopra della gente, ma non è così, per questo devi lavorare per loro.

Torniamo alla sfera personale e alle figure cruciali: suo padre Fedele.

Facendo il fotoreporter al Corriere della Sera, vedeva le ‘magagne’ del Fascismo da vicino: buffoni, abili clown. Doveva sottostare al Minculpop, passare dalla censura: che bravo! Ma lui era molto ironico, diceva a Mussolini “Duce a me il nero non mi fa”, eppure si vestiva davanti lo specchio, metteva il fazzoletto nel taschino, cappello Borsalino, penna stilografica, andava dal sarto. All’epoca gli uomini erano così.

Raccontare delle storie attraverso un’immagine: lei come c’è riuscito?

Grazie all’istinto. Mi ha aiutato molto nel fare certe scelte, andando contro l’economia, il (buon) senso delle cose. Ho preferito il rapporto col mio istinto, piuttosto che la razionalità. Ci sono delle situazioni in cui la ragione vorrebbe prevalere, in verità io non ho mai voluto essere politicamente corretto, eseguendo solo degli ordini. Ripeto ciò che ho detto in un’altra intervista (concessa a D-Repubblica qualche giorno fa, ndr): non sto qui a fare il modesto, ho una preparazione che non ha nessuno, e di questo sono sicuro di fronte ai miei colleghi, anzi me li mangio. Non ci devo pensare alla tecnica: neanche quando siamo passati dalla pellicola al digitale. Le regole non esistono, il talento è un concetto astratto, va esercitato e gestito. Ecco cos’è il talento.

E la macchina fotografica?

Solo un mezzo, non un fine. Faccio il fotografo, ma non divento più attento, sensibile, se la prendo in mano. Devi esserlo in primis tu come persona, poi puoi agire: ecco perché sono reporter da una vita.

Com’è la comunicazione di oggi?

Ci sono tanti mezzi, spesso si fa confusione. Bisogna invece saper guardare, vedere, analizzare, criticare. Questo è il mio mestiere. Fotografare ciò che tu pensi, sia un oggetto, una situazione, un posto, ti può servire a raccontare qualcosa della società e della realtà.

Ha nuovo progetto, visibile da aprile, “I tedeschi del 21esimo secolo”. Sarà qualcosa di enorme.

Sono andato in giro per la Germania a fotografare i tedeschi di adesso. È impressionante vedere come un paese abbia cambiato la propria morfologia, faccia, colore, grazie all’immigrazione, che ha sempre fatto del bene. Mi dica quando ha provocato danni? Siamo noi che a volte non riusciamo a integrarli. L’immigrazione ha sempre portato progresso, sviluppo, benessere, aumento della cultura, comprensione del diverso, tutto quello di cui noi abbiamo bisogno. La Germania è il primo paese del mondo, tra i più avanzati in questo senso. Ho fotografato 800 persone in strada, fermandoli. Ne è nato così un libro (in tedesco e inglese, con articoli di approfondimento a tema) e un’esposizione: ci saranno 100 ritratti, sistemati su totem alti 4 metri, posti in un piedistallo in cemento, ognuno con nome e cognome, sistemati a Washingtonplatz, a Berlino.

La fotografia dunque si evolve.

Una volta facevi i paesaggi, i reportage, i ritratti, le foto di moda, in costume, le foto d’arte. La fotografia ora si adegua alle esigenze della società: in questo momento è un’azione culturale. Viviamo di immagini: ci servono a capire meglio la condizione umana.

Elio Fiorucci: lo ha definito un purosangue, perché?

Purosangue significa allevato in purezza. Elio era persona sincera, gioioso della vita, particolarmente sensibile, correva veloce, aveva questo atteggiamento, un campione umano. Fiorucci riusciva a carpire le personalità altrui, i bisogni, le voglie, gli umori: ti parlava delle sue galline, ad esempio, come fosse il concorso di Miss Universo, si entusiasmava per i dettagli. E aveva ragione.

Con i cavalli ha un rapporto invece speciale, visto che li alleva.

Sono gli animali del futuro, ti insegnano la civiltà, a vivere. Una cavalla può vincere l’Arco di Trionfo contro il maschio, valere ed essere pagata di più: è l’unico sport dove combattono a pari livello. Il cavallo è forte, crede in te.

Ma la passione è per la boxe.

Mi piace molto: non è una questione di forza, qui è velocità, anticipazione, tattica, quando vedo un vero match sudo, lo vivo. Nel 1974 fotografai Muhammad Alì, l’unico sportivo ad aver fatto qualcosa di interessante. Gli altri sono il nulla, solo milioni di euro, a partire da Cristiano Ronaldo. Alì invece ha buttato cinque anni della sua vita, lottando contro il razzismo, manifestando contro la Guerra in Vietnam, un impegno civile incredibile, ha messo la faccia per capire. Gli davano del gradasso, ma era dotato di una particolare intelligenza, un super uomo, come visione del mondo. Quando lo vidi la prima volta rimasi a bocca aperta: ha rivoluzionato la mentalità del pugilatore.

Il futuro. Se pensa al suo lavoro e a chi lo riscoprirà che emozione le dà?

Una grande soddisfazione, un privilegio. Se avessi fotografato unicamente modelle, donne ricche, non avrei combinato nulla. La differenza è stato cercare di intrufolarmi nelle pieghe sociali, essere un testimone del mio tempo, riguardo ciò che mi riguardava e toccava, anche come senso di responsabilità civile. Avrei potuto approfittare, fare il fotografo di moda, forse sarebbe stato maggiormente prestigioso, ma la verità è che sono molto più attratto da ciò che faccio, rispetto a quello che mi chiedono di fare. Spero passi questo fattore: seguire il proprio istinto in modo onesto, non ti puoi sbagliare.

Ora porta avanti anche il Toscani Circus, nella ‘sua’ Maremma, come polo culturale.

Voglio che lo sia, è il contrario dei social, i follower qui sono venti alla volta. Organizziamo incontri, workshop, si beve, si mangia, si discute, si proietta, ci si ascolta, si legge. A fine agosto 2022 avremo Marina Abramović, poi subito dopo Fran Lebowitz, un’amica di sempre: fui io la prima persona con cui ha parlato a Dior, aveva 18 anni. Ma in fondo ognuno è Fran Lebowitz e lei lo racconterà.

Ha immortalato chiunque: c’è un personaggio che le manca?

Bob Dylan, è il mio faro totale, il mio Mozart, giusto, perfetto in tutto. Non solo per le canzoni, l’atteggiamento, parlo del modo di vivere. Ha 81 anni, ma ogni sera suona in un bar diverso, gira col van, accidenti non sono mai riuscito ad averlo tra le mani e “pigliarlo per il collo”. Speriamo sia il prossimo obiettivo.