Cuffie di legno, 45 giri, biciclette, cravatte, camicie chiuse all’ultimo bottone. Wooden Wisdom, come si fa chiamare, si circonda di cose senza tempo. Al momento è senza patente ma ha un anello al dito, con una scritta. Non quell’anello, e non quella scritta: Frodo è altrove, oggi.

Elijah Wood è una radiolina vintage che trasmette musica ricercata a volume attentamente misurato. Un’antenna che intercetta frequenze poco battute, echi foxtrot, elettronica inglese anni 80, vecchio mondo, vecchi valori, classicità. Senza interferenze. Senza scricchiolii.

Dire che sia un po’ rétro e che galleggi in una sorta di Terra di Mezzo, per lui che s’è consegnato alla leggenda regalando il suo volto da viaggiatore interstellare a Frodo Baggins de Il Signore degli anelli, sarebbe una battuta fin troppo facile. Diciamo che vive felicemente in mezzo alla terra, allora, ben piantato in questo mondo e molto attento a succhiarne i sali, con rami estesi e radici lunghe. Non sembra un caso che il nome d’arte che s’è scelto per le occasioni sempre più frequenti in cui smette i panni d’attore e veste quelli da deejay sia solido ed evocativo: Wooden Wisdom. Una formula che letteralmente significa “saggezza legnosa”. Una scelta che dice molto del materiale con cui è costruita la sua impalcatura: a 32 appena compiuti e dopo oltre vent’anni di carriera (sulle scene dall’età di 8 anni, a 11 anni era con Mel Gibson in Amore per sempre) Elijah è un giovane uomo interessante in modo sobrio e ordinato, che usa le parole con criteri di economicità, che non fatica a farsi trascinare in un sorriso ma che altrettanto difficilmente s’abbandona allo sghignazzo. Se tra le dita tiene una sigaretta, allora gli piace gesticolare, usando la mano come un’elica del pensiero, mostrando così l’anello massiccio che porta all’anulare destro, inciso con una scritta che (sarà la suggestione) sembra tracciata con segni magici, misteriosi e antichi. «Oddio, so già cosa mi sta per chiedere, e la risposta è no», dice, ridendo questa volta di gusto, smontando ogni fantasia. «Sarei veramente da ricoverare se andassi in giro con l’anello di Frodo, non trovi?». I caratteri ebraici nascondono una frase secca, che sembra un invito a vivere un’esistenza accelerata ma dentro i quali Wood, più profondamente, trova invece uno sprone «a meditare. A cercare il momento giusto per fare ogni cosa». È un motto del rabbino Hillel, vissuto a Babilonia ai tempi di Re Erode. Recita così: «se non ora, quando?».

È questo il tuo “tesoro”?

«No. Il mio tesoro è la famiglia. Gli amici. Le mie fotografie. E soprattutto, la musica».

Riesci a goderti la vita come vorresti oppure sei diventato troppo famoso per farlo?

«Scherzi? Io riesco a fare tutto quello che desidero, e ad andare ovunque».

Quali situazioni scegli per calarti nella mischia del mondo?

«I viaggi e i festival musicali, soprattutto. Sono appena stato al Coachella, tre giorni di musica nel deserto, fuori Los Angeles. E poi ho girato l’Inghilterra e l’Irlanda del Nord, dove mi sono tolto lo sfizio di fare un paio di deejay set in un bar di Belfast».

Essere una star non toglie spontaneità a ogni contatto umano?

«Non so, non ci penso. Non sono il tipo che sta lì a dire: “oddio, adesso mi riconoscono ed è finita la festa”. Voglio rischiare. Essere vivo tra i vivi».

Quando hai cominciato a fare il deejay?

«Undici anni fa, a Wellington, sul set del primo Signore degli Anelli. Sapendo di dover trascorrere sedici mesi lontano da casa avevo portato con me ben due bauli di cd. Una sera, al solito bar, davanti a Cate Blanchett e Viggo Mortensen, ho cominciato a mettere musica».

Per te questo è soltanto un hobby?

«Lo era. Ma sta diventando una cosa seria».

Che cuffie usi?

«Le Grado, realizzate in legno e alluminio da una famiglia di Brooklyn, invariate da sessant’anni. Hanno il sapore delle cose fatte bene, proprio come piace a me».

Che sapore ha la tua selezione musicale?

«C’è soprattutto vecchio soul e molto funk. Poi musica francese degli anni 60, world music brasiliana e africana, e molta psichedelica turca».

A Belfast c’è gente che balla musica psichedelica turca?

«Certo. Saresti sorpreso nel vedere la reazione del pubblico. Vedere la pista piena per me è davvero gratificante. Amo molto creare energia».

Mixi cd oppure usi l’iPod?

«Solo vinili. Preferibilmente in formato 45 giri».

Come ti vesti quando sali in console?

«Una camicia, un jeans stretto, una cravatta. Come sempre».

In rete ti hanno soprannominato «the lord of the ties», «il signore delle cravatte», lo sapevi?

«No. Ma la cosa non mi disturba. Le ho indossate tutti i giorni per molto tempo: strette, col nodo piccolo, regimental o a righe orizzontali. E anche quando non le indosso, rimango fermamente convinto che la camicia vada allacciata fino all’ultimo bottone, senza eccezioni».

Un’ispirazione più british che californiana.

«Il mio immaginario è quello. L’eleganza dei Joy Division, dei New Order, degli Who. Mi piacciono le camice a maniche corte, i jeans risvoltati, le scarpe inglesi a nido di rondine. Casual business, direi. E magari anche un po’ “clerk”».

Non sei tipo da grandi firme, perciò.

«Non necessariamente. Però ci sono marchi che indosso spesso e che mi rispecchiano molto: Band of Outsiders ad esempio, per gli abiti. Oppure Rag & Bone, per tutto il basic. O i jeans A.P.C. Compro molto vintage, anche. In generale, posso dire di non essere il tipo che allunga la mano e prende la prima cosa che trova sulla seggiola alla mattina. Ci sto attento. Mi piace lo stile maschile classico, con pochi fronzoli, quasi austero».

La moda t’appare frivola?

«Solo quando si mette il cartellino di scadenza da sola. Io voglio circondarmi di cose il più possibile senza tempo, che non possano essere inquadrate in un momento e in un’estetica fugaci».

Cosa cerchi di comunicare vestendoti?

«Volontariamente nulla. Ma se mi guardo allo specchio vedo nelle mie scelte un riflesso della mia natura. Io sono così: dritto, lineare, leggibile, cristallino».

Molto lontano dallo stereotipo un po’ sazio e superficialone dell’ «Hollywood guy». Dove hai scelto di vivere?

«Ho avuto per anni una casa a Santa Monica, ma l’ho venduta. Adesso vivo a Venice Beach».

Dove vanno tutti matti per le biciclette Linus, a quanto pare. Ne possiedi una?

«Certo. Praticamente mi muovo solo con quella. La mia è ispirata alle biciclette da corsa francesi degli anni 50. Si chiama Gaston».

Motociclette ne hai?

«Una Triumph del ‘68, regalatami da un amico. Ma non posso usarla. La mia patente è scaduta».

Chi ti ha trasmesso il modello per questo modo così personale di essere uomo?

«Ho imparato tutto dalle donne, anche se può sembrare un paradosso. In particolare da mia madre. È lei che mi ha insegnato a restare sempre in connessione profonda con le mie emozioni».

Anche a rischio di non apparire a ogni costo forte, rassicurante, protettivo?

«Certo. Uno uomo che nasconde il suo lato vulnerabile è un uomo insicuro».

Salvaguardare il tuo equilibrio, considerato che a 11 anni eri già famoso, è stato difficile?

«No. Ho sempre avuto chiara in mente la differenza tra quanto accadeva a casa e quanto accadeva sul set. Il segreto è stato impedire alla fama di definire la mia identità».

L’impronta fortemente cattolica data alla tua educazione ha inciso positivamente?

«A posteriori, posso dire di sì. L’umiltà mi è stata trapanata nel cervello da subito. E anche adesso, pur potendomelo teoricamente permettere, proprio non riesco ad accettare che mi si accordino privilegi o trattamenti particolari. Le mie priorità nella vita sono sempre state altre».

La salvezza?

«No. L’autoconservazione. E se oggi sono sulla strada giusta lo devo esclusivamente alla solidità delle mie fondamenta».

La parola ribellione per te ha un significato?

«I ribelli devono rompere le sbarre di una gabbia. Io non ne ho mai avuta una».

Ma qualche stupidata da ragazzino l’avrai pur fatta. Che so, andare allo Spring Break a ubriacarsi fino a svenire.

«Sia chiaro: mi piace bere, amo divertirmi. Ma in quella roba c’ho sempre sentito puzza di morte, e non mi ha mai interessato. Da adolescente, mi annoiavo soltanto all’idea».

Un sogno di fuga ce l’hai?

«Vorrei girare gli Stati Uniti da solo, in auto. Prima guidando verso est, da Los Angeles a Miami. Poi risalendo fino a Denver per raggiungere Portland, tornando poi a casa lungo la Pacific Highway. Ma non sarebbe una vera fuga. M’immagino un viaggio lungo due mesi, non di più».

Cosa ti costringe a tornare?
«Nulla. Voglio farlo. La vita vera, per me, è sempre stata più interessante della fantasia».

Testo: Raffaele Panizza

Foto: Albert Watson

Fashion Editor: Andrea Tenerani

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