

Perché il ritorno dei Radiohead è più discusso di quello dei fratelli Gallagher
Tra biglietti proibitivi, polemiche politiche e l’eredità di una band che ha sempre rifiutato la nostalgia, l’atteso tour 2025 è già un caso che divide i fan. La storia di una gruppo che ha sempre sfidato le regole, ora intrappolata nel business dei concerti
Dopo sette anni di assenza dai grandi palchi, i Radiohead riemergono con un tour europeo che ha già il sapore della storia. Poche tappe, selezionatissime, e un’unica, agognata fermata italiana: Bologna. Dal 14 al 18 novembre 2025, l’Unipol Arena si prepara a trasformarsi in un tempio della musica per quattro serate consecutive, un lusso raro che ha scatenato l’estasi dei fan. Ma l’accesso è blindato: codici anti-bot, vendite lampo che in mezz’ora hanno esaurito ogni disponibilità, e subito dopo, come in un rituale perverso, la bolla speculativa del mercato parallelo. Prezzi lievitati fino a cifre surreali, toccando i duemila euro. All’euforia si intrecciano così rabbia, frustrazione e appelli al boicottaggio, in un mix esplosivo che solo una band come i Radiohead poteva scatenare. Insomma, un comeback che sta facendo discutere più di quello dei fratelli Gallagher con gli Oasis.

Radiohead: le origini di un culto
E pensare che tutto ebbe inizio nella sonnolenta Abingdon, nel sud dell’Inghilterra, dove cinque ragazzi – Thom Yorke, Ed O’Brien, i fratelli Jonny e Colin Greenwood, e Phil Selway – si ritrovavano a provare il venerdì pomeriggio, battezzandosi inizialmente On a Friday. C’era già l’alchimia, mancava solo un nome definitivo. Lo trovarono ispirandosi a un brano dei Talking Heads, “Radio Head“, e da lì nacque il mito.
Il mondo li scoprì con Creep nel 1992: un inno all’inadeguatezza che in patria fu inizialmente ignorato, persino bandito dalla BBC per “eccesso di depressione”, ma che oltreoceano divenne il mantra di una generazione. “I’m a creep, I’m a weirdo” risuonava nelle camerette di milioni di adolescenti. Yorke arriverà a odiare quel brano, sentendosi intrappolato in uno stereotipo, ma era ormai avvenuto il loro big bang.

Il grande boom arrivò con OK Computer (1997), un disco che suonava come un film distopico in musica, capace di catturare la paranoia tecnologica e l’angoscia del millennio in arrivo. Acclamato come un nuovo Dark Side of the Moon, non era più semplice rock, ma architetture sonore inedite e visionarie. Poi, la svolta radicale: Kid A (2000). Niente singoli tradizionali, niente chitarre in primo piano. Solo elettronica ossessiva, atmosfere glaciali e sperimentazione pura. Tutti pronosticavano un suicidio artistico. Invece, l’album divenne numero uno in America senza promozione, segnando il momento in cui i Radiohead smisero di essere una band rock per diventare un orizzonte culturale a sé stante.

La loro natura di rivoluzionari si consacrò nel 2007 con In Rainbows, l’album che potevi scaricare pagando quanto volevi, persino zero. Uno schiaffo all’industria discografica e una dichiarazione di principio: la musica è un’esperienza, non una merce. Da allora, hanno incarnato l’essenza della band “anti-nostalgia”, pronta a demolire la propria immagine pur di andare avanti.
La tappa a Bologna: aspettative, biglietti e polemiche
E questo spirito si riflette in ogni loro concerto, che non è mai una semplice replica dei dischi. Ogni serata è un’opera a sé: setlist imprevedibili, improvvisazioni, luci che frantumano lo spazio creando un cinema mentale. Non stupisce, quindi, che i biglietti per Bologna siano spariti in un attimo. Ma è proprio qui che il lato oscuro della devozione fa capolino: il mercato secondario, con le sue cifre folli e il rischio truffe, ha già offuscato l’euforia. A questo si aggiungono le polemiche politiche, con chi invoca una presa di posizione sulla questione palestinese e ricorda la contestata data di Tel Aviv di poco tempo fa.

Dal canto suo, Bologna, con la sua anima universitaria, rivoluzionaria e colta, sembra il palcoscenico ideale per un evento del genere. Sarà un’esperienza collettiva fatta di classici immortali come Paranoid Android e Everything in Its Right Place, ma anche di momenti unici e irripetibili. Il segreto dei Radiohead è proprio questo: sulla loro scena, nulla è definitivo, tutto può trasformarsi. Oggi i Radiohead non sono più solo “la band di Creep“. Sono un’infrastruttura culturale: decenni di suoni che hanno plasmato il presente, idee radicali sul rapporto con il pubblico, un universo in continua espansione. Assistere a un loro concerto significa partecipare a un convegno di memorie sonore e pura invenzione. Se riuscirete ad avere un biglietto, andate. Se no, non lasciate che la rabbia verso chi specula offuschi la magia.
