Inhaler, “The way we are”

Inhaler, “The way we are”

Fuori dal circo social-mediatico dove le band nascono e finiscono in un attimo, gli Inhaler vanno per la loro strada. Dal primo singolo alla vetta delle classifiche, fino al nuovo album Open Wide, gli Inhaler ci spiegano come tutto è cominciato. E, ora, sta procedendo…

di Ester Viola

I talent show. Instagram. TikTok. Esserci. Il titolo di band promettente si vince così, ultimamente. C’è sovrapproduzione di star. Poche eccezioni. Perfino saper scrivere musica non fa troppa differenza: per arrivare sulle vette di Spotify basta una buona cover indovinata. C’è solo uno scarto, da considerare. Una distanza che riporta a terra, ai criteri che sono quelli del vecchio successo assoluto. È la distanza che porta da essere una “band-che-sparisce” (il destino ormai di quasi tutte) a la “band-che-resta”. È restare, adesso, l’impresa. Belle, nuove promesse internazionali, anyone? Una, gli Inhaler.

Giovanissimi, irlandesi, poco social, il gruppo indie-rock è nato a Dublino nel 2015. Il loro sound mescola post-punk, britpop e rock alternativo. Sono Elijah Hewson (voce e chitarra), Robert Keating (basso), Josh Jenkinson (chitarra) e Ryan McMahon (batteria). Con influenze da Inxs e The Stone Roses a The Killers, si sono affermati come una delle band emergenti più interessanti della scena europea.


Total look Dsquared2

Gli Inhaler. Un nome che richiama l’asma di Elijah, ma dice pure ossigeno. Aria nuova. Hanno già suonato ovunque. Sembrano aver assorbito l’energia degli Oasis, la malinconia dei Joy Division e la brillantezza pop dei The 1975. Nel 2017 l’incrocio perfetto: con il singolo I Want You si sono definitivamente presi pubblico e critica. Da lì è iniziata l’epoca delle conferme, lungi da finire. Nel 2021 l’album di debutto, It Won’t Always Be Like This, ha conquistato la vetta delle classifiche britanniche e irlandesi. Un successo che li ha resi la prima irish band dal 2008 a essere il numero uno nel Regno Unito. Gli Inhaler hanno perfezionato un talento che sa tenere nell’ingranaggio il pezzo buono del 900 – canzoni epiche e potenti – risvegliate però dai toni moderni. Pozione perfetta, energia e introspezione.

Elijah Hewson. Nato nel 1999 a Dublino, è cresciuto in una casa dove la musica era ovunque. L’ovunque, nel suo caso, ingombrava non poco. «Non è stato mio padre a spingermi verso la musica, ma Guitar Hero», dice ridendo, ogni ennesima volta che qualcuno fa la domanda generalista. Cioè: com’è essere il figlio di, quando papà è qualcuno di cui tutto il mondo sa almeno una canzone. A 13 anni ha preso in mano una chitarra. La prima questione da risolvere, prima ancora degli accordi, è la famiglia: Bono Vox. Quando è stata, comincio, la decisione: noi faremo musica e non altro? «Prima di avere un’etichetta, prima che qualcuno sapesse chi eravamo, abbiamo lanciato due singoli su Spotify, e poi abbiamo fatto un concerto; c’erano tutti i nostri amici. Mi ricordo quello come l’inizio, e me lo ricordo come un bel momento».


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Che prendiamo di quegli anni gloriosi che sono stati i 90?, chiedo. Va ancora indietro, che ha da pescare anche un po’ prima. «Gli Stone Roses. Loro su tutti. I Pixies, li considero importantissimi». E voi? «Non abbiamo voluto mai essere divisivi. Vogliamo creare uno spazio in cui le persone possano arrivare, ascoltare e dimenticarsi da che tribù veniamo». Se si potesse avere chiunque per una collaborazione? Vivo o morto? «I Beatles. Solo loro. Tutta la musica che amiamo arriva da lì. Sono la visione della musica rock. Penso anche che alla fine sono stati loro la prima boy band. Tutti probabilmente direbbero i Beatles, e io mi adeguo». 

Torniamo qui. Scena musicale 2025. Richiesta di materiale originale continua. Esserci sempre. Come si bilancia questo con l’autenticità e il tempo che chiede la musica? E i social? «I social», leggero sospiro. «C’è una forte aspettativa sul fatto che tu sia molto estroverso. Per qualcuno può essere facile. A noi non viene naturale. Dobbiamo imparare ancora tanto. Sì, la pressione sul dover essere presenti, sempre online, si fa sentire. Ma continua a sembrarci non vera. È un equilibrio tra esserci e non tradire se stessi». Arriva la Fahrenheit della musica. Brucia tutto, si può salvare pochissimo. Quali canzoni teniamo per salvarci? «Non possiamo dire quelle che bruciamo? No? Ok, Chi teniamo». La domanda li diverte, però ci mettono tempo. Mi dicono che sembrava facile, non lo è.«Qualcosa dei Beatles, Heroes di David Bowie, non vivrei senza. E I’m on Fire di Springsteen».


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Dal primo singolo a oggi che è successo? Qual è la strada fino a Open Wide, l’ultimo album? «Siamo lontani da dove abbiamo cominciato. E non so bene quale strada abbiamo fatto. Siamo molto diversi come persone se penso al primo album. Cerco di ricordare com’ero: mi sentivo innocente, penso fossimo molto naïve. Ora avvertiamo più responsabilità, ma non è una pressione negativa. In questo disco ci sentiamo più vicini a noi stessi, ed è difficile quando sei giovane, perché non hai ancora assaggiato il fallimento. Abbiamo un senso molto più realistico di chi siamo, che rende la nostra musica qualcosa di, come dire? più onesto». Le storie migliori diventano le migliori per un motivo. E funzionano solo quando chi scrive e la musica parlano la stessa lingua.

Nella foto di apertura total look Dsquared2
Photography: Simon171, Fashion Director and stylist: Edoardo Caniglia, Hair: Kiril Vasilev at The Green Apple using GHD , Make up: Chiara Guizzetti at The Green Apple, Casting Director: Vanessa Contini
Production: Maria Sole Petroni, K448_studio, Styling assistant: Jacopo Ungarelli