

The unconventional George Mackay
Lavora da oltre 20 anni, una carriera coerente e stabile senza alcun compromesso con il cinema commerciale. È l’attore preferito di registi e autori a livello internazionale. Adesso lo vedremo in The End,un musical post-apocalittico con Tilda Swinton e Michael Shannon
Nel giro di poco più di un anno, abbiamo visto George MacKay (Londra, 32 anni) impegnato in diversi ruoli: in Femme è uno spavaldo omofobo e gay non dichiarato, mentre in The Beast di Bertrand Bonello, in cui si intrecciano tre epoche storiche, è un incel ossessionato da Léa Seydoux. In The End (previsto per giugno), invece, interpreta il figlio di Tilda Swinton e Michael Shannon, un giovane che ha vissuto tutta la vita in un lussuoso bunker e inizia a mettere in discussione la propria esistenza. La gamma di ruoli interpretati da MacKay e il tipo di progetti o di registi con cui ha lavorato in 20 anni è talmente vasta e fuori dagli schemi che fa capire perché un attore così talentuoso e con il suo aspetto fisico non sia diventato l’ennesimo divo, intercambiabile e redditizio. Nei due decenni trascorsi da quando, a 11 anni, fu notato nel corso di teatro della sua scuola e ottenne la parte di uno dei Bimbi Sperduti del Peter Pan di P. J. Hogan (2003), MacKay ha evitato il circuito mediatico e i progetti mainstream che avrebbero potuto tracciare una rotta più convenzionale.

Lui spiega che non è stata una scelta voluta e insiste sul fattore fortuna. Anche se non dice apertamente che questo è il motivo, la particolarità del suo percorso professionale ha molto a che fare con l’instancabile curiosità artistica, il profondo interesse per il genere umano e la passione cinefila che lo contraddistinguono. Ha rilasciato questa intervista poco prima di presentare la campagna per Gucci diretta dall’enfant terrible del cinema francofono, Xavier Dolan, e durante una pausa dalle riprese del suo prossimo lavoro, & Sons, dell’argentino Pablo Trapero (Il clan), interpretato con Bill Nighy e Matt Smith. Proprio un altro tipo di cinema, quindi.
La sua carriera non sembra seguire una linea convenzionale: è sempre stato il frutto di una decisione consapevole?
È un insieme di cose. La fortuna ha giocato un ruolo fondamentale e la situazione è cambiata negli anni. A volte, potevo essere attirato da una storia molto potente; in altre, sono stato attratto dalla persona con cui avrei lavorato. Se ammiri il lavoro di un autore o di un regista, la storia passa in secondo piano rispetto all’opportunità di collaborare con loro. Sono anche un appassionato dei film indie, sono quelli che mi colpiscono di più e che riescono a raccontare le storie da un’altra prospettiva.
In questi circoli indie, sono i registi che vengono a cercarla o deve comunque passare attraverso le consuete fasi di casting?
Anche qui la situazione è varia. Prendiamo l’esempio di Bonello: non conoscevo la sua produzione, prima che arrivasse l’opportunità di fare il provino, ma quando sono stato contattato ho iniziato a guardare i suoi lavori e ho capito che era un auteur francese incredibile. Poi ho visto che nel cast c’era Léa Seydoux e che la storia era molto diversa dal solito… alla fine volevo farlo a tutti i costi. Mi sono buttato a capofitto nel cinema di Bonello e nel suo modo di lavorare. Mi piace mettermi nelle mani di registi con un’estetica e una visione particolari e diverse dal solito.

Joshua Oppenheimer l’ha contattata per chiederle di recitare in The End?
Sì, posso ritenermi fortunato perché il ruolo mi è stato offerto proprio da lui. La pellicola L’atto di uccidere mi è piaciuta da morire e sapevo che fare un musical post-a-pocalittico con Joshua sarebbe stata un’esperienza molto speciale. Inoltre, insieme al copione ci ha inviato un lookbook e un documento dove spiegava la sua visione del film e raccontava tutto in modo estremamente espressivo… Quando sono entrato a far parte del progetto sapevo non solo che avrei lavorato con Tilda Swinton e Michael Shannon, ma anche che era confermata la presenza di Mikhail Krichman, il direttore della fotografia di Leviathan (2014) e Loveless (2017), due film che per me hanno rappresentato due esperienze cinematografiche profonde. Ricordo di aver visto Leviathan da solo, in un cinema del quartiere Soho di Londra. Sono entrato senza sapere nulla, attratto dalla locandina, e l’ho trovato fantastico.
Detto così sembra proprio un cinefilo doc!
Sì, non saprei (sorride). Ultimamente, da quando sono diventato padre, non riesco ad andare al cinema come prima, ma quando ero single e non lavoravo tanto, ci andavo molto spesso. Ero affascinato da pellicole come Leviathan, anche se non saprei spiegare perché, forse semplicemente perché sono film davvero straordinari e io voglio essere circondato solo da gente che ha fatto del buon cinema!
The End non è un film facile, si potrebbe definire un musical post-apocalittico, un dramma, a volte quasi una satira…
La visione e l’idea di Joshua erano molto ben definite e abbiamo avuto la possibilità di parlarne a lungo. C’era lo storyboard dell’intero film, sapevo che sarebbe stata quasi una coreografia e che io avrei dovuto solo conoscere perfettamente la mia parte. E imparare a cantare… Tutta l’équipe musicale mi ha aiutato molto in quella parte. Alla fine, è come quando ti prepari per un determinato ruolo e vai in palestra per prendere peso o rafforzare i muscoli. In questo caso, devi esercitare di continuo la voce.

Oppenheimer sostiene che The End è un musical perché è un ottimista e vuole trasmettere il proprio ottimismo agli spettatori.
Credo che il film, tra le tante cose, esplori il divario che separa la speranza dal delirio. Ma anche le storie che raccontiamo a noi stessi, e come le raccontiamo, per riuscire ad affrontare ogni giorno con positività. Indaga anche il modo in cui gli adulti devono essere responsabili delle proprie decisioni, a livello sociale e personale. Quando è iniziato il progetto era appena nata la mia prima figlia e stavo ricalibrando tutto ciò che avevo imparato nella mia vita, volevo trovare il mio modo personale di fare le cose, di collocarmi in questa società capitalista, di raggiungere un equilibrio. Occorre sapersi prendere cura di sé stessi per poi prendersi cura degli altri. The End tocca molti aspetti, parla del cambiamento climatico… La cosa strana è che per promuovere un film sul cambiamento climatico si debbano prendere tanti aerei! Ma è proprio questo il senso profondo di una pellicola come questa, no? Solleva molte domande, ma non dà tutte le risposte.
Parla anche dei ruoli stabiliti socialmente all’interno di un piccolo nucleo sociale isolato, si sofferma sui ruoli maschili, come la figura paterna tradizionale… Stranamente, nei suoi ultimi lavori, l’esplorazione dell’identità maschile è stata una costante.
Sì, sì (ride e mette davanti alla telecamera le sue unghie dipinte di rosa), come vedete rispondo a questa domanda sulla mascolinità con queste unghie smaltate da mia figlia. Sì, non nego che sia un argomento che mi interessa molto, l’idea di essere uomo cambia e si trasforma attraverso le esperienze che vivo. Credo che stiamo assistendo a una rivalutazione dei ruoli di genere che va di pari passo con la rivalutazione del patriarcato. Per me è una domanda costante, e spero di continuare a esplorarla attraverso il mio lavoro e in relazione a tutti gli uomini che mi circondano. Ho imparato molto dai miei personaggi, come quello che impersonavo in The Kelly Gang (di Justin Kurzel, 2019), un macho man che esplora una femminilità che non avevo ancora sondato fino a quel momento. Un ritratto dell’ipermascolinità presentato attraverso un gruppo di banditi che indossavano abiti da donna. Quando finisci le riprese di un progetto simile, il tuo mondo si espande, sorgono domande che non sempre hanno una risposta univoca.

1917 di Sam Mendes, Captain Fantastic con Viggo Mortensen e la commedia Pride sono forse i film per cui è più conosciuto, e che dimostrano anche la sua grande versatilità…
Sì, credo anch’io che, tra i miei film, siano i tre più conosciuti. In questi casi, quando continui a scommettere con integrità su lavori che riscuotono anche il consenso del pubblico puoi ritenerti davvero fortunato.
Eppure si è sottratto proprio dai generi più mainstream, tant’è vero che non ha mai fatto una commedia romantica, per esempio.
Non è stata una scelta consapevole, ma un misto di fattori in cui entrano in gioco il mio gusto personale per il cinema indipendente, come ho detto prima, ma anche i ruoli per cui ho lottato e che non sono riuscito a ottenere (ride). Non lo nego, ci sono molti film che provi a fare, ma non sempre va come vorresti. In realtà non mi dispiacerebbe, il pubblico per me conta molto, conta sempre di più, ma per entrare in sintonia con gli spettatori non devi per forza fare un film commerciale.

Dopo il successo di 1917, che ha trionfato agli Oscar, non le si sono aperte le porte di Hollywood?
Sì e no. Se devo essere veramente sincero, le porte che si aprono dopo un’esperienza simile si chiudono molto in fretta, hanno vita breve e, in generale, durano giusto il tempo della campagna di premiazione o fino all’inizio della campagna successiva. È tutto molto legato alle mode. Puoi lanciarti in quella carriera e può andarti bene per quanto riguarda l’industria cinematografica e il successo che ottieni, ma lì dentro puoi anche perderti. Non credo che questo idillio duri a lungo, perché finisci per dipendere da ciò che gli altri trovano eccitante in te e non da ciò che ti emoziona. Sì, questo è stato un momento di differenziazione, ma mi sento più fortunato quando sono nel cast di un film che può fare la differenza. Credo sia fondamentale lavorare con costanza e bene, perché si ottengono risultati duraturi.
In questo senso, come affronta gli altri aspetti legati al suo lavoro, come le campagne promozionali, le foto, la moda? Si sente a suo agio con la fama o il successo che ha oggi?
Non mi definirei uno famoso, quindi direi sì. È vero che ci sono alcune cose di questa professione in cui non mi sento molto comodo. Ma ce ne sono altre che mi piacciono molto. L’ideale è trovare il giusto equilibrio tra tutte. Nei set fotografici, per esempio, non mi sento tanto a mio agio, non ho la rete di sicurezza di una sceneggiatura né il tempo di sviluppare un personaggio, ma mi fido delle menti creative di coloro che li organizzano, dai fotografi agli stilisti… Ci sono storie che dovrebbero raccontarsi da sole, che non hanno bisogno di pubblicità, ma capisco anche che, dal punto di vista dell’industria cinematografica, alcune storie vengono create proprio grazie alla reputazione delle persone. L’obiettivo per rispettare il lavoro di tutti è quello di gestire tutto ciò in modo sano. So anche che questo servizio, questa intervista, queste foto, sono un privilegio, soprattutto per una pellicola con il budget che ha avuto The End. È il modo per raggiungere il maggior numero di persone possibile. Se scelgo storie che voglio che arrivino, che ritengo siano importanti, sono grato di poterne parlare. Anzi, adoro parlarne.