

Roman Bilinsk, la resilienza del campione
Roman Bilinski ha ventun anni e si porta addosso un’aria che non è quella del ragazzo prodigio, della bella promessa, né dell’adulto. È qualcosa di più interessante: intanto la calma. Rischio, sconfitta, ritorno? Ha già visto tutto. E ha imparato come salvarsi
La biografia di Roman Bilinski scorre come una scalata piena di deviazioni: dagli esordi nel 2019 alle monoposto di F4 britannica, poi l’avventura nel GB3, quindi tre anni non sempre semplici nella Formula Regional, fino al trionfo in Oceania e a un incidente che lo ha costretto a fermarsi, due vertebre da ricostruire. Lì impara a pensare la velocità da fermo. Oggi, 2025, Bilinski è tornato dove voleva essere: sulla pista, a misurarsi con il futuro. Faccia da cinema, metà Varsavia metà Londra, con il passo internazionale di chi si allena ogni giorno a vivere tra lingue e culture diverse. Ma quello che lo rende interessante non sono le statistiche – podi, pole, titoli giovanili – ma l’impressione che non stia cercando di diventare un campione a tutti i costi. È qualcuno, Roman, che sta provando a restare intero in un mestiere che spesso consuma tutto, lasciando dietro di sé statistiche e immagini d’archivio.
Cosa ti diverte, quando sei dall’altra parte delle interviste?
Le domande random. Quelle che non parlano per forza di sport. Quelle diverse, che spiazzano e costringono a pensare in un modo nuovo. Mi piacciono perché ti fanno uscire dal copione.
Se dovessi raccontarti con qualcosa che ti è successo, quale sarebbe?
Avevo dieci, undici anni. Era un periodo difficile, in cui tutto sembrava complicato. Ricordo bene la sensazione di non avere molte possibilità. È stato un tempo che mi ha segnato, anche se allora non lo capivo.
In che senso difficile?
A casa non c’erano molti soldi. C’erano tanti limiti e poche sicurezze. Non è stato semplice, ma proprio da lì ho imparato quanto le difficoltà insegnino a riconoscere il valore delle cose.

Smith, stivali Doucal’s
Che cosa ti ha lasciato?
La capacità di apprezzare tutto quello che, dopo, ti sembra normale. Impari a non dare niente per scontato, ad accorgerti della fortuna che c’è dietro ogni cosa semplice. E quando cresci con quel ricordo, ti resta una specie di bussola.
Parliamo dell’incidente. Com’è stato attraversarlo?
Ho rotto due vertebre. Avevo perso la sensibilità alle gambe. È stato come trovarsi improvvisamente in un altro corpo, un corpo che non ti risponde. E’ come se la vita che conoscevi fosse sparita.
Hai dovuto reimparare a camminare. Che cosa ti ripetevi, in quei giorni?
Una sola cosa. Tutti i giorni, sempre la stessa: se non lo fai adesso, se non ti rialzi, tra dieci anni te ne pentirai per tutta la vita. Non era solo una frase, era la mia unica strada.

Che cos’è per te la competizione?
È straordinaria. Come concetto. Non riguarda solo vincere, ma vivere l’idea di misurarsi con qualcosa che ti supera. È un motore che ti spinge a non accontentarti mai.
Perché?
Perché c’entra con il diventare una versione migliore di te stesso. La competizione è come uno specchio: ti fa vedere chi sei e chi potresti essere.
Invece cosa trovi assurdo, se c’è qualcosa, della competizione?
Il bisogno di prevalere sugli altri. È l’essenza dello sport, certo, ma è anche il lato pericoloso: rischia di cambiarti la testa, il modo di pensare. Ti spinge a vedere nemici dappertutto. Va maneggiata bene.
Si dice che perdere insegni più che vincere.
Già. Perdere non è mai un’esperienza divertente.
E allora cosa insegna? Dicono che lo faccia.
Non tanto a guardarti indietro e pensare: avrei potuto cambiare questo. Ti modifica il carattere. Devi fare i conti con quella sconfitta. Devi saperti salvare. È lì che cresci.
E che ne fai, di questa esperienza?
Quel cambio di mentalità lo porti con te. Lo usi la volta successiva. È quello che distingue i vincenti: non dimenticare la sconfitta, ma trasformarla in benzina.

Come vivi la pressione?
So quanto ho lavorato. È quello che mi àncora. Il lavoro fatto è come una protezione invisibile: ti ricorda che sei pronto, che hai fatto tutto quello che dovevi.
E ti basta?
Sì, perché so credere a me stesso quando dico: si può fare. Quando sei da solo, ti ripeti: dimentica le aspettative, dimentica gli altri. Sei solo. Fallo. È liberatorio.
Non basta mai solo la forza personale, però. Quanto contano gli altri?
Non è bello dirlo, ma serve un certo tipo di persone intorno. Non tutti. Persone generose, senza invidie, solide e corrette. Non importa cosa succede o cosa gli succede: restano. Una cerchia così è un privilegio raro.
E guardando avanti? Quali sono i tuoi obiettivi?
Formula 1. Una famiglia. Una vita felice. Voglio continuare a cercare l’adrenalina, ma anche costruire una normalità mia.
Dove ti vedi a realizzarla?
Qui diventa difficile rispondere. Ma so che amo l’Italia. Vivo a Milano da tre anni. Amo la gente, qui. Amo che ci sia così tanto, la varietà di stimoli, l’energia delle città e la bellezza delle province.
E il caos?
Certo, c’è. Ma io non mi concentro mai sul caos.
Photos by Clément Laguardia, styling by Edoardo Caniglia, Grooming: Yuri Napolitano @Interlude Project. Styling assistants: Ruben Blattner, Giada Cubeddu. Location: Magma Eventi (magmaeventimilano.com) Project manager: Andrea Mc Leod.