Tahar Rahim
Intenso ed estremo. Per interpretare il tossicomane di “Alpha” ha perso oltre 20 chili. «È stata l’esperienza più difficile della mia vita, sia a livello fisico che spirituale»
Nuota dentro i jeans, emaciato, con la schiena che sembra una tastiera di costole e le scapole come aquiloni. È impressionante la trasformazione fisica di Tahar Rahim in Alpha (dal 18 settembre al cinema), film potente di crescita e accettazione, di epidemia e perdita, dalla regista Julia Ducournau, Palma d’oro con Titane.
L’attore francese è maestoso nel suo Amin, personaggio estremo, tossicodipendente, per cui ha perso oltre 20 chili in tre mesi e mezzo di preparazione, in cui ha avuto anche la forza di promuovere Monsieur Azanavour. Pure lì si era trasformato, nel grande chansonnier Charles Aznavour, imparando a cantare.
Da quando la sua carriera è decollata nel 2009, grazie al thriller rivelazione Il profeta, Tahar ha lasciato il segno. Così disturbante nella serie tv The Serpent, nei panni di un serial killer, struggente in The Mauritanian, detenuto ingiustamente a Guantánamo, da nomination ai Golden Globe… Ma in Alpha si supera, in un ruolo dolorosamente intenso sia livello fisico che emotivo.

Tahar, come hai vissuto questo dimagrimento e il fatto di recitare con un fisico così debole e magro?
«Per Alpha ho perso 22 chili circa. È stata l’esperienza più difficile della mia vita, sia a livello fisico che spirituale. Un simile dimagrimento richiede di fare propri stato d’animo e mentalità da atleta di alto livello: c’è una disciplina da rispettare al millimetro, sia per riuscire a perdere peso che per conservare le energie per lavorare.
E poi, inevitabilmente, la perdita di peso crea una mancanza: ci si muove in modo diverso, le emozioni fluiscono attraverso il corpo in maniera differente. I sensi vengono trasformati dalla privazione. In qualche modo, in questa sofferenza, ho vissuto una sorta di risveglio spirituale, una connessione più forte con Dio».
Puoi raccontarci la storia dei pomodorini e dei pistacchi? Ne sei ancora dipendente?
«No, ne sono uscito», sorride Tahar Rahim. «Il regime alimentare per Alpha prevedeva un ciclo di tre giorni molto rigido. Il primo giorno, potevo mangiare solo proteine, solo a pranzo e la sera, per 150 grammi. Il secondo, proteine con verdure, il terzo verdure. Poi ricominciava il ciclo. La notte, però, visto che mi addormentavo sul tardi, perché è difficile dormire quando si è così magri, avevo fame.
Raggiunto un certo peso, la nutrizionista mi ha concesso pomodorini e pistacchi. Senza rendermene conto, ho creato un rituale: mi accontentavo dei pochi consentiti, tagliavo i pomodorini a metà, spezzavo i pistacchi a metà e li mettevo dentro a ogni metà di pomodorino.
Era un momento importante per me e, quando finivo le scorte, ero capace di uscir la notte a cercarne un po’. Mi è capitato durante le riprese, a Le Havre: ho noleggiato uno scooter per fare il giro dei supermercati aperti. Mi resi conto di aver sviluppato una dipendenza».

C’è una bella frase in Alpha, in bocca al tuo personaggio, che dice: “Il troppo amore a volte fa impazzire la gente”.
«È verissimo. Quando l’amore non è equilibrato, se non è sano, si può perdere il controllo. Si finisce per amare la persona non per quello che è ma per come la vogliamo noi. E così la si soffoca o si diventa incapaci di aiutarla o ascoltarla. L’universo è costruito sull’equilibrio. Anche l’amore deve averlo».
Perché hai scelto di far parte di Alpha?
«Perché mi piace molto il cinema di Julia. Quando ho scoperto il suo primo film Raw – Una cruda verità, ho riconosciuto una grande regista emergente, con una visione moderna e molto personale, alle prese con un genere cinematografico raro in Francia e a livello internazionale. Poi quando ho visto Titane, ho capito che stava portando il suo cinema verso un altro luogo. Volevo lavorare con lei. Leggendo la sceneggiatura di Alpha, ho sentito espresse emozioni diverse rispetto ai film precedenti, più dolci e meno cruente. E il personaggio di Amin era un dono».
La paura è un’emozione molto presente nel film. Qual è la tua più grande paura?
«Ne ho due. La prima è: non essere capace. Non so trovare parole più giuste per dirlo. L’altra, la paura più grande, è che accada qualcosa ai miei figli. Questa include inevitabilmente il timore di non essere in grado di proteggerli, di fornir loro gli strumenti necessari per andare avanti in un mondo così folle e disumano in alcuni luoghi, come possiamo vedere a Gaza.
Mi chiedo: come cresceranno i miei figli in un mondo che banalizza il genocidio in corso, mentre noi siamo impotenti e le grandi potenze distolgono lo sguardo? Bisogna far loro capire che l’essere umano può diventare così, ma che non deve esserlo. Io non sono cresciuto in un simile contesto, quindi non so come posso educarli a questo».

Sei uno dei pochi attori francesi ad aver avuto una lunga carriera internazionale, sin dai tuoi esordi. Sei stato anche in film Marvel (Madame web) e alla corte di Ridley Scott (Napoleon). Ne sei fiero?
«Ne sono molto felice, ma non direi fiero. Sono molto perfezionista quindi mai completamente soddisfatto di quello che faccio».
Qual è il tuo segreto?
«Non credo che ci sia. Si può forse parlare di un segreto “multifattoriale”: ci vuole molto lavoro, essere disponibili all’ascolto, correre dei rischi, osare dicendo dei no e rimboccarsi le maniche. Quando si vuole qualcosa bisogna darsi da fare perché non verrà mai da sé a bussare alla porta. Come nessuno è venuto a cercarmi per fare cinema. Vivevo in una piccola città nell’est della Francia, in cui può capitare una volta ogni dieci anni di incrociare un tecnico cinematografico. Sono andato io a cercare quello che volevo. E poi, in tutto questo, c’è anche il fattore destino».
Qual è il tuo rapporto con il successo e la popolarità?
«È un rapporto che si è sviluppato nel tempo. Quando ho iniziato a essere riconosciuto per strada, avevo paura di diventare qualcuno che non mi sarebbe piaciuto, un presuntuoso. Così mi sono un po’ isolato per qualche anno. Non andavo molto ai ritrovi del mio settore o in tv. In realtà non lo faccio nemmeno oggi. Questo mi ha permesso di accettare il successo in modo più sano. Appaio solo quando ho un film in promozione e per il resto del tempo vivo la mia vita normalmente. Le persone sono gentili con me e mai troppo invadenti: quando mi chiedono una foto o un autografo lo faccio con piacere».

Tra tutti i personaggi che hai interpretato, ce n’è uno che ti è rimasto più addosso di altri?
«Ce ne sono molti a cui sono affezionato, da Malik ne Il profeta a Charles Aznavour, da Charles Sobhraj in The Serpent ad Amin ora. Ma quello che mi ha colpito di più è Mohamedou Ould Slahi in The Mauritanian, perché per me andava oltre il cinema. È una storia vera. Ho interpretato un uomo che ha subito un’ingiustizia orribile, ancora vivente, che ho incontrato ed era ancora impossibilitato a uscire dalla Mauritania. Sentivo il bisogno di schierarmi con i realizzatori del film, per aiutarlo in qualche modo. È stato qualcosa di molto forte. È l’unico personaggio che mi è rimasto addosso per tre settimane, sennò solitamente mi è facile abbandonare i miei personaggi. Questo è rimasto a lungo».
Sui social sei protagonista di un podcast per Louis Vuitton. Qual è il tuo rapporto con la moda e come ti piace vestirti?
«Il mio rapporto con la moda fa parte della mia formazione cinematografica. Da adolescente e da universitario guardavo film in continuazione, da forte appassionato di cinema. Lo stile dei grandi attori della New Hollywood, degli anni ’60 e ’70, mi ha istruito in termini di abbigliamento. Mi piaceva prendere in prestito il look dei personaggi e vestirmi in modo simile. A tutt’oggi, con Louis Vuitton, amo trovare piccole singolarità sottili per uno stile che non assomigli ad altri ma che non sia neanche troppo stravagante. L’equilibrio è sempre la chiave».
C’è un ruolo o un film che ti sei pentito di aver rifiutato nel corso della tua carriera?
«No, mai».

E un regista con cui non hai ancora lavorato con cui ti piacerebbe lavorare?
«Visto che siamo in Italia, direi Sorrentino, il mio amico Paolo. Mi piace molto anche Matteo Garrone. Ma direi Paolo, lo trovo un grande regista. Gli mando i miei saluti: abbiamo fatto parte della giuria a Marrakech e c’è stata molta sintonia. Fa un grande cinema, senza dimenticare che il cinema è anche bellezza, nonostante il lato oscuro dell’essere umano. È un artista immenso».
Attualmente stai lavorando alla serie tv Prisoner e al film Les Misérables. Puoi raccontarci qualcosa?
«Di Prisoner abbiamo finito le riprese. È la storia di un agente che trasporta prigionieri, dal tribunale alla prigione. Deve trasportare urgentemente un testimone molto importante in uno dei casi più eclatanti della criminalità inglese. Vengono però attaccati da malviventi che non vogliono che testimoni e i due si ritrovano in fuga, cercando di sopravvivere. La particolarità? Sono ammanettati. È una serie tv di genere, con azione e suspense. Nei Miserabili invece interpreto l’ispettore Javert».
E dovrai cantare?
«No, non è un musical, è un adattamento diretto dal libro. Dopo aver interpretato Charles Aznavour ho già cantato abbastanza».