Il lusso ama il fast fashion? Anatomia di un amore tossico
Forse sarebbe meglio parlare di un matrimonio di convenienza. Chi e cosa si guadagna da collaborazioni come Glenn Martens X H&M (che è solo l’ultima di una lunga lista)
Glenn Martens, il genio che ha resuscitato Diesel trasformandolo in un fenomeno di culto. La mano prodigio dietro una maison del calibro di Maison Margiela. Colui che ha guidato il visionario Y/Project, sì proprio lui ha appena steso la sua firma su una collezione per H&M. Una selezione di proposte che promette silhouette scultoree e prezzi “democratici” (30–350 €). L’annuncio ha generato lo stesso clamore misto a stupore di quando un professore di Oxford decide di insegnare alle scuole serali. Ma in realtà è solamente l’ultimo, scintillante anello di una catena ormai lunga: il matrimonio di convenienza, o forse di necessità, tra l’alta moda e il fast fashion. La domanda sporge spontanea. Ma perché un designer che vende giacche da 2.000 euro dovrebbe preoccuparsi di produrre t-shirt da 30? La risposta, come un abito di Alaïa, è cucita su più strati.

Il culto dell’accessibilità e il furto d’aura
Il fast fashion offre ciò che le maison, per definizione, non possiedono: densità di punti vendita, potenza logistica e audience globale. Si tratta di marketing puro dal taglio perversamente democratico. Il fast fashion è la più grande piattaforma pubblicitaria del mondo. Quando vediamo co-collezioni come Mugler x H&M, Zara X Stefano Pilati, Uniqlo X JW Anderson, i protagonisti scendono in piazza vendono un sogno, un’aura. Permettono alla studentessa di Milano di indossare un frammento dello stesso universo estetico dell’influencer che segue su TikTok. È una forma di “democratizzazione del lusso” che, in realtà, è un furto di status simbol.
Il cliente del fast fashion ottiene l’ebbrezza di possedere un oggetto di design, seppur in serie limitatissima e con materiali ovviamente diversi. Il brand di lusso, in cambio, ottiene un’esposizione mediatica mostruosa, un’onda di hype che trascende i circoli ristretti della moda e si riversa nel mainstream. È un bagno di folla digitale: hashtag, sold out in minuti, code fuori dai negozi. Un fenomeno che ripulisce il brand di lusso da qualsiasi patina di elitarismo snob, rendendolo “cool” e desiderabile per la Generazione Z, che del resto è il vero target di questo gioco.

Dall’altra parte della barricata? Per H&M, Zara, Uniqlo e via dicendo, è una questione di legittimazione. Il fast fashion è sotto assedio: accusato di inquinamento, sfruttamento del lavoro, omologazione. Associarsi a un nome sacro del design è come un’improvvisa trasfusione di credibilità creativa. È la prova che non sono solo “copia e incolla”, ma che possono essere un laboratorio di tendenze, un patron delle arti applicate. È greenwashing estetico.
Il paradosso finale: chi ha bisogno di chi?
Allora, l’alta moda ha bisogno del fast fashion? La risposta è sì, ma è un sì carico di contraddizioni. Ne ha bisogno come una droga: per l’immediata iniezione di rilevanza culturale, per la visibilità di massa, per il reclutamento di nuovi fedeli. È un meccanismo che sancisce un’epoca in cui l’essere “virale” conta più dell’essere “eterno”.
Ma è un rapporto pericoloso. Perché mentre il fast fashion succhia il prestigio dell’alta moda, l’alta moda rischia di bruciare la sua aura di esclusività, l’unica cosa che, in fondo, giustifica prezzi che sono ormai follia pura. È un tango tra due mondi che si disprezzano e si desiderano allo stesso tempo. E mentre ballano, noi, nel mezzo, corriamo a comprare il bomber di Glenn Martens, credendo per un attimo di aver afferrato un pezzo di quel sogno, senza renderci conto che il vero sogno, forse, ce lo stanno vendendo.
