

Sartoria Latorre: 60 anni di moda artigianale italiana dalla Puglia
Sessant’anni di giacche, figli, ulivi e passione. In Puglia, nella sartoria Latorre, il futuro si costruisce a mano, un punto alla volta. Siamo stati lì, tra passato e visione, per raccontare una storia vera di famiglia, sartoria e indipendenza.
“Sessant’anni sono passati dal primo punto che ha messo papà, e davvero con grande orgoglio mi auguro che possano trascorrere almeno altri 60 anni a chi verrà dopo di noi.” Alberto Latorre parla piano, ma le sue parole pesano come un taglio netto su tessuto doppio ritorto. Perché questa non è solo una ricorrenza, è una storia cucita addosso. Sessant’anni di giacche, bottoni, pranzi di famiglia e decisioni prese attorno a un tavolo pieno di stoffe. Sessant’anni a Locorotondo, senza mai spostarsi troppo, ma con lo sguardo sempre più lontano. Sessant’anni di Sartoria Latorre.
E da Latorre non si festeggia con fanfare, sbrilluccichii superflui o flûte di champagne. Per celebrare questo importante anniversario si brinda con il calore di una famiglia che ti apre le porte, e con il rumore sincero del ferro da stiro che sibila sul tessuto. E ovviamente anche con dell’ottimo vino locale. Fuori il cielo era grigio, dentro brillava tutto. Tra la luce filtrata da vetrate ampie quanto una promessa, qui, in quella che un tempo era una fabbrica di carcasse per batterie (anni Settanta, full apocalisse industriale), oggi si produce bellezza, in giacca e pantalone. E si produce tutta qui, a Locorotondo, in Puglia. Niente outsourcing, niente giri esotici: solo mani, tessuti, e quella certa insistenza familiare a voler fare tutto da sé. Perché l’indipendenza, da queste parti, è una forma di lusso che non si vende ma si coltiva.

La storia cucita a mano dei Latorre
Latorre non è una maison da passerella con colonna sonora drammatica. È una famiglia con le forbici affilate e le idee chiare: “Noi siamo ancora bottega”, mi dicono. E bottega vuol dire che se serve, si scuce e si rifà. Che i giovani li formi da zero, che il capo non si chiude finché non “sente” giusto, perché – cito – “non tutti sanno vestire, alcuni si coprono e basta.” La sartoria Latorre è una saga familiare che ha il ritmo del respiro e la precisione del taglio a mano. Michele, il patriarca, ha passato ago e savoir-faire ai suoi quattro figli (Vito, Alberto, Luciano e Alessio) e oggi, all’alba della terza generazione, c’è anche il giovane Michele Jr., che ha portato nel guardaroba Latorre una giacca di modernità: la visione del marketing, la voglia di raccontarsi senza snaturarsi.
Abbiamo passato due giorni con loro – nuvole sopra la testa, ma cuore caldo – tra i reparti rinnovati e il verde degli ulivi che abbraccia lo stabilimento. A pranzo, orecchiette come da nonna. A cena, il miglior km 0 della mia vita. Dire che ci hanno accolti con calore è riduttivo: ci hanno fatto spazio a tavola, nella memoria, nel racconto.

Un viaggio tra aghi, tessuti e ulivi
La visita comincia nel reparto taglio, passa per cucito e stiro (entrambi rinnovati di fresco) e termina in una sala illuminata da luce naturale dove le mani – sempre loro – continuano a fare tutto. O quasi: i macchinari ci sono, certo, ma sono spalle di supporto. Il vero talento lo trovi nelle sovrapposizioni manuali, nell’ago che danza tra tessuti di lana, cashmere o quei semitecnici intelligenti (stretch senza elastane! Grazie alla torsione del filato) che sembrano jersey ma si portano come un completo Sartre & cocktail. Uno dei fiori all’occhiello? Si chiama Soffio, ed è una giacca in lana extrafine della nuova collezione che pesa appena 180 grammi. Praticamente un sospiro sartoriale. La provi e capisci subito perché molti clienti descrivono l’esperienza con parole come “godimento”. Giuro: lo hanno detto loro.
E poi c’è lui, Michele, il patriarca. Al quale non posso che invidiare la forza d’animo, l’energia e quella scaltrezza lucida che, a più di 80 anni, ancora lo contraddistinguono. Colui che a nove anni metteva le mani tra gli scampoli e a ventitré già era “inondato di lavoro”. Dalla scuola sartoriale veneta alla sua Locorotondo, che allora era “una pianta viva di sarti con la S maiuscola”, ha fatto della perseveranza il suo manifesto. “Ogni giorno c’è qualcosa di nuovo”, ripete come fosse un mantra. E si capisce che lo pensa davvero.

Qui non si parla di trend, ma di continuità. Di tessuti che arrivano solo dopo attento controllo qualità. Di nuovi ingressi. La terza generazione Latorre è già al lavoro, con l’ambizione silenziosa di chi ha imparato che si può innovare anche restando radicati, come quegli ulivi che crescono appena fuori dalla fabbrica, piantati e curati dalla famiglia stessa. Ogni dettaglio racconta questa tensione tra tradizione e spinta in avanti. E sempre da sé, perché da Latorre l’indipendenza è sacra: prima si produce per sé, poi – se c’è margine – per gli altri. Nessuna sudditanza ai grandi clienti: “Se un giorno dovessero sparire, noi ci restiamo. Interi”.
Il cortometraggio celebrativo che di Sartoria Latorre
A coronamento del viaggio, l’ultimo giorno hanno proiettato un film. Non uno spot finto o patinato, ma un vero cortometraggio, girato da Frigobar, un collettivo di giovani pugliesi talentuosi che Latorre ha scelto di sostenere. Perché il territorio si coltiva anche così: dando fiducia a chi crea localmente, senza dover guardare per forza a Milano per trovare idee forti e creativi capaci. Il film è stato un concentrato di pathos, ma senza mai cadere nella melassa o nella retorica. Un racconto potente della famiglia, del passato e di quel futuro che, qui, affonda già le radici.

Memorabile il momento in cui Michele Latorre senior ricorda sua moglie Vittoria, a cui ha dedicato l’opera: “Abbiamo vissuto 43 anni insieme sempre in armonia. Quando ci guardavamo in faccia ci si capiva. Lei era una grande donna. Se mi trovo qua, lo devo a lei: è stata il volano, quella più coraggiosa. Io ero un sartorello fifone… Alla fine è stata lei a darmi la spinta.” E ancora: “Il nostro amore è nato fra le pezze, tra i tessuti. Senza la sua forza, niente sarebbe stato possibile.” Tra gli spettatori, nessuno parlava. Solo qualche respiro trattenuto e un’emozione che, come tutto qui, era fatta a mano.