Dardust: «Vi presento il mio disco nudo»

Dardust: «Vi presento il mio disco nudo»

di Cristina Marinoni

L’artista italiano multiplatino torna alle origini: dal Conservatorio all’elettronica, passando per Bowie e i Chemical Brothers

Dardust, ovvero Dario Faini, 48 anni, piceno, è un artista unico nel panorama italiano. Prolifico senza mai scadere nel banale, il «musicista, compositore e performer», come si definisce durante la nostra chiacchierata, ha già raggiunto quota 100 dischi di platino, decine di hit (Riccione di The Giornalisti) e due vittorie al Festival di Sanremo (con Soldi di Mahmood nel 2019 e La noia di Angelian Mango all’edizione 2024, più tante altre partecipazioni che hanno lasciato il segno, da Andromeda di Elodie a Cenere di Lazza).

L’8 novembre è uscito il quinto album Urban Impressionism (Artist First e Sony Masterworks), che ha presentato dal vivo per la prima volta (il tour partirà da Milano il 12 marzo e terminerà a Londra l’8 aprile) ieri al Today at Apple, evento organizzato da Apple Music in occasione della Milano Music Week, con l’inseparabile pianoforte. «Sono sempre felice di suonare, attendevo con impazienza di condividere con pubblico questi pezzi» racconta.


Di cosa sei più soddisfatto del nuovo disco?

«Del mio ritorno alle origini dopo gli estremi che avevo toccato in Duality (2022, ndr), dove avevo separato il pianoforte e l’elettronica in due emisferi: minimalismo pianistico da un lato e ultra contaminazione elettronica dall’altro.
Questo progetto ha riunito due parti della mia personalità, i due miei imprinting musicali, con nuova maturità, togliendo il superfluo. È un disco nudo, dove mi sono messo a nudo: la melodia e il piano al centro, c’è soltanto l’essenziale. Forse è stato il lavoro più difficile proprio per questo: la semplicità è stata una grande conquista».

Quanto tempo hai impiegato per realizzarlo?

«Dalla scrittura, passando per la produzione e l’arrangiamento, fino alla registrazione un anno circa, anche perché ho modificato di continuo fraseggi, passaggi».

Da dove hai tratto ispirazione per Urban Impressionism?

«Dalla mia creatività di piccolo musicista. Quando suonavo il piano da piccolo, creavo la terza dimensione attraverso la mia immaginazione: coloravo quel bianco e nero che vivevo in periferia. Un po’ come i pittori impressionisti.
L’impressionismo è nato a Parigi, quindi sono partito per la Capitale francese, ma non mi sono fermato nella metropoli, ho raggiunto le periferie. Lì ho scoperto il brutalismo e il flow creativo si è generato. Nelle periferie ho scritto e ho trovato lo spazio adatto per i visual in bianco e nero».

Una location della banlieue parigina, dove Dardust ha composto “Urban Impressionism”, ispirato all’architettura brutalista e alla pittura impressionista (Filiberto Signorello)

Nelle tracce il tuo inseparabile pianoforte si combina perfettamente all’elettronica come mai era accaduto prima. Cosa rappresenta il piano per te?

«È l’estensione delle mie braccia, del cuore, dell’anima. Un’astronave che mi porta in territori nuovi, verso il mondo, verso gli altri. È la parte di me che mostro con maggiore orgoglio e vale più delle parole, dei video selfie. Il mio collegamento con il mondo resta il piano, nonostante l’era dei social media».

Perché hai iniziato a suonare?

«Per imitazione di mia sorella. A 9 anni sono entrato in Conservatorio, con un’insegnante di una severità che non esiste più e apprezzo. Quell’impatto con il clima austero e la cura nei dettagli che subito ho imparato mi hanno formato. Ho lasciato gli studi a 17 anni, attirato dalla scena elettro-pop era importante che mi stavo perdendo, perché dedicavo molto tempo all’interpretazione pianistica.

La scelta di avvicinarmi ai sintetizzatori a quell’età mi ha plasmato e mi ha regalato un approccio moderno che si è rivelato utilissimo. Se avessi seguito soltanto il percorso pianistico, non avrei esplorato territori fondamentali per la mia carriera. Poi ho ripreso gli studi: ancora oggi mi dedico al repertorio classico».

Gli studi classici ti sono serviti nell’elettronica?

«Sì, per esempio nell’utilizzo delle progressioni e negli accordi più arditi: spesso nell’elettronica sono basici. Anche come produttore: se sei musicista, hai un valore aggiunto».

Il tuo compositore classico preferito?

«I simbolisti amo molto Ravel, Debussy e Respighi: ha dato molto all’impressionismo musicale».

Il compositore più elettronico, secondo te?

«Ne dico due. Steve Reich: ha introdotto il concetto dei loop, dei pattern ritmici ed stato sicuramente un precursore della modernità. E Nils Frahm».

Hai scelto il tuo nome d’arte in omaggio a Bowie/Ziggy Stardust e ai Chemical Brothers (Dust Brothers agli esordi, ndr). Cosa ti ha conquistato di loro?

«Di Bowie la capacità di decodificare il linguaggio sotterraneo, di nicchia, e renderlo popolare: adoperava un codice complesso e raffinato, eppure raggiungeva chiunque. Oltre all’abilità di disattendere continuamente le aspettative del pubblico cambiando identità».

Dei Chemical Brothers?

«La psichedelia, la cura negli effetti sonori e l’impatto visual: ogni loro disco è un viaggio nell’inconscio, in un universo distopico».

Hai lavorato con tantissimi artisti, molto diversi tra loro, da Madame a Jovanotti. Se potessi scegliere un musicista del passato o del presente con cui collaborare?

«Quincy Jones, scomparso a inizio novembre. Si è dedicato all’orchestrazione e alla musica elettronica, ha rinnovato il pop, ma era partito dal jazz e dal gospel. Ha fatto tutto in maniera eccellente, per di più, rompendo le regole, e io avrei fatto di tutto pur di stargli accanto: anche pulire il suo studio di registrazione».