

Intervista a Eric James Guillemain
Dagli esordi con Peter Lindbergh alla sua prima monografia, il fotografo franco-marocchino ci porta dietro l’obiettivo, svelando il suo percorso, la sua visione e quel desiderio costante di catturare l’invisibile
Nel silenzio sospeso di un set cinematografico, prima che il regista chiami l’azione, esiste un luogo quasi sacro: il backstage. È lì che gli attori abbandonano per un attimo il copione, immersi in un’ultima riflessione, un gesto istintivo, uno sguardo perso nel vuoto. Eric James Guillemain ha trasformato questi istanti fugaci in arte, raccontando attraverso la fotografia quel limbo emotivo che precede la metamorfosi scenica.
Con Backstage Dreams. The Secret Door to Sets, edito da Damiani il fotografo franco-marocchino raccoglie quindici anni di scatti intimi e mai costruiti, rubati ai grandi del cinema: da Isabelle Huppert a Robert Pattinson, da Charlize Theron a Anya Taylor-Joy. Un’opera che non è solo una celebrazione del ritratto, ma una riflessione sulla verità che si cela dietro l’illusione.

Eric, Backstage Dreams è la tua prima monografia e raccoglie 15 anni di lavoro. Quando hai iniziato a scattare dietro le quinte e cosa ti ha affascinato di quei momenti?
«La mia prima esperienza dietro le quinte è stata nel 2007, prima che Instagram e l’iPhone conquistassero i social media. Ero un principiante, un fotografo esordiente che, quasi per caso, si era ritrovato su un importante set pubblicitario senza una vera esperienza. Ho dovuto imparare tutto sul momento: le tecniche e come gestire la pressione di linee guida molto precise. Ricordo di essere stato più colpito dall’attrezzatura cinematografica che dal talento. Ero affascinato dalle grandi telecamere, dagli impianti di illuminazione e dalla troupe, tutti vestiti come un’unità speciale. Il servizio fotografico si è svolto principalmente al buio, il che mi ha subito immerso in un’atmosfera misteriosa e sconosciuta, una sensazione di non sapere esattamente cosa stesse accadendo. Quella sensazione mi è rimasta dentro».

Wim Wenders ha detto: “Ogni foto racconta una storia. A volte solo l’angolazione inversa racconta la verità.” Come si lega questa idea alla tua visione della fotografia e come si riflette nel tuo lavoro?
«Quella citazione ha molti livelli di significato. Innanzitutto, direi che l’angolazione inversa di ogni foto che ho scattato è, in un certo senso, l’immagine di me stesso mentre le fotografavo, ed è proprio da qui che ho iniziato con questo libro. Ho selezionato ogni immagine ponendomi una domanda: dov’è il mio vero io in questa foto? Dov’è la mia storia personale? Ho capito che ciascuno dei miei soggetti, nella loro verità, in qualche modo rifletteva la mia. È anche per questo che spesso ho fotografato gli attori attraverso specchi. La magia degli specchi è che riflettono sempre il tuo vero io. Mostrano il tuo opposto, il tuo riflesso, pur conservando tutte le somiglianze e simmetrie, ma rivelano in qualche modo una verità più profonda».
Il tuo sguardo si posa sugli attori nei loro momenti più vulnerabili, quando sono soli, in attesa, quasi sospesi. Come riesci a catturare questa autenticità senza invadere il loro spazio?
«Sono una persona solitaria e riservata per natura, quindi porto con me quell’energia, fondendomi in qualsiasi ambiente senza essere invadente. Odio impormi. Ho bisogno di sentirmi invitato, altrimenti rimango invisibile. Cerco anche di percepire quanta intimità una persona ha bisogno, perché questo stabilisce i limiti che devo rispettare. Nei grandi set è più facile passare inosservato, osservare e catturare momenti di verità. È più difficile quando sei a tre metri di distanza, scattando un ritratto, eppure, in qualche modo, riesco a portare in quei momenti la stessa atmosfera di malinconia e solitudine. Non sono sicuro di poter spiegare del tutto come. Probabilmente i miei soggetti, senza perdere la loro autenticità, sembrano inconsciamente riflettere qualcosa di me. Senza che io lo chieda mai».

Nel libro compaiono star del calibro di Isabelle Huppert, Charlize Theron, Robert Pattinson e Anya Taylor-Joy. C’è un ritratto che ti è rimasto particolarmente impresso?
«Il ritratto che ho scattato a Léa Seydoux in uno specchio è uno dei miei preferiti. È stato un momento così delicato di fiducia reciproca e verità. All’epoca non era ancora la star che sarebbe diventata, e io stavo appena iniziando a esplorare quello che ora chiamo l’approccio “reverse angle”. C’era qualcosa di molto puro e istintivo in quello scambio, e penso che questa immagine abbia fatto da modello per ciò che ho cercato di esprimere nei lavori successivi».
Sei passato dalla musica alla fotografia. Quali aspetti del tuo background musicale influenzano il tuo modo di raccontare le immagini?
«A livello tecnico, credo di aver trasferito dalla musica, e in particolare dalle canzoni, la ripetizione di certi motivi, come riff o ritornelli, all’interno della mia narrazione visiva. A volte racconto una storia con un movimento circolare: la fine spesso rispecchia l’inizio, proprio come in certe canzoni in cui l’intro e l’outro hanno un suono simile. Il ritmo è qualcosa a cui tengo profondamente, sapere quando lasciare fluire le cose e quando inserire un ponte o una pausa. E venendo dal rock, quel senso di immediatezza è parte del mio modo di fotografare, con l’urgenza di essere su un palco, cercando di catturare l’energia del pubblico per rimanere in sintonia con ciò che sta accadendo».

Il backstage è un luogo di trasformazione, dove l’attore diventa personaggio. Hai mai colto il momento esatto in cui avviene questa metamorfosi?
«Penso che il lungo processo di trasformazione sia più interessante del cambiamento in sé o del momento di svolta. L’invisibile nell’introspezione, il formidabile viaggio interiore per prepararsi a un personaggio, è ciò che mi affascina. Ciò che ne emerge, nella sua stranezza, oscurità o persino invisibilità, è quello che cerco di catturare, e a volte sento di doverlo fare».
In Backstage Dreams le location sono spesso spoglie, essenziali, a volte persino malinconiche. Come scegli l’atmosfera giusta per esaltare la presenza dell’attore?
«Onestamente, l’atmosfera giusta è quella in cui sento di appartenere, dove mi sento abbastanza in equilibrio da poter rivelare il mio soggetto. Se mi trovo in un ambiente magnifico ma non mi sento a mio agio, non riuscirò a scattare una buona foto. In quel caso, scelgo un luogo più tranquillo, che forse mi somiglia di più e mi si adatta meglio. E come qualcuno ha detto una volta: è la foto che ti chiama. Io vado semplicemente dove sono richiesto, trovando da lì l’angolazione giusta».

Molti dei tuoi ritratti hanno una qualità cinematografica, quasi da fermo immagine di un film mai girato. Hai mai pensato di esplorare il cinema con un progetto tutto tuo?
«Sì, assolutamente. Ho un’idea a cui sto pensando da un po’ di tempo. La sfida, ovviamente, è scrivere una sceneggiatura solida, un mestiere che rispetto profondamente e che trovo intimidatorio affrontare da solo. Ma se non troverò il mio alter ego per quella parte, suppongo che dovrò occuparmene da solo».
Sei stato assistente di Peter Lindbergh, un maestro della fotografia. Qual è il più grande insegnamento che hai portato con te da quell’esperienza?
«La prima lezione che ho imparato da Peter è una ovvia: dietro ogni immagine c’è un lavoro duro e una meticolosa attenzione ai dettagli. La seconda è altrettanto importante: non prendere il lavoro, o te stesso, troppo sul serio».

Guardando al futuro, hai già in mente il tuo prossimo progetto? Ti immagini ancora nei backstage o c’è un nuovo territorio visivo che vuoi esplorare?
«Ho un altro libro quasi pronto, direi più spirituale, e senza persone al suo interno. Sono ancora molto interessato alla fotografia di backstage, ma più specificamente al ritratto in condizioni di backstage. Come in questo libro, reinventare la storia è davvero quello che faccio. La semplice documentazione del backstage non mi entusiasma molto. È una cosa da Instagram. Ho anche iniziato un progetto chiamato ‘The Blankpage’, basato interamente su scatti improvvisati: più sono impreparati, meglio è. Le immagini sono accompagnate dalle mie poesie, scritte in risposta al momento e alle fotografie stesse».
Se potessi scattare una sola fotografia per raccontare chi sei oggi, cosa vorresti immortalare?
«Un eremita che scala una montagna».