Intervista a Nico Vascellari: l’irrequietezza dell’arte tra istinto e sperimentazione

Intervista a Nico Vascellari: l’irrequietezza dell’arte tra istinto e sperimentazione

di Elena Bordignon

Senza regole e apparentemente indisciplinato. Rincorre delle ‘urgenze’ che sono principalmente la messa fuoco di stati d’animo, di improvvisazioni esistenziali

Nico Vascellari (Vittorio Veneto, 1976) è uno degli artisti più ‘irrequieti’ della sua generazione. Propenso allo scavo e all’introspezione, le sue opere – si muove tra i linguaggi della scultura e la fotografia, l’istallazione e la performance – nascono sempre da una ‘tensione’ che ha dell’inspiegabile e, azzardiamo, dell’oscuro. Non cerca relazioni, ma empatie, non vuole etichette ma aspira a contaminazioni: è un artista che insegue “il movimento, la trasformazione, il rischio”.
In occasione dell’inaugurazione del suo progetto inedito e site specific Pastorale che inaugura il 2 aprile nella grande Sala della Cariatidi di Palazzo Reale, gli abbiamo fatto alcune domande. Le risposte, come tutta la sua ricerca, si sono rivelate imprevedibili. 

Ti muovi dentro e fuori le regole. Proponi progetti inaspettati e, anche se riveli il tema delle tue mostre, poi ci sorprendi sempre. Come nascono le tue opere?

«Non ho idea del dove mi muovo rispetto alle regole perché non le conosco. Le opere solitamente  vengono sviluppate durante periodi piuttosto lunghi totalmente immersivi. C’è un continuo passaggio tra l’intuizione e la costruzione, tra il raccogliere frammenti del reale e restituirli in una forma che li trascenda. L’opera nasce spesso da un’urgenza, da qualcosa che non riesco a spiegare a parole ma che sento di dover tradurre in un’esperienza. A volte è un suono, altre volte è un oggetto, un gesto, un’immagine, un ricordo. Sono alla ricerca di una tensione alla quale sottopormi».

Natura, riti, folklore, tradizioni: la tua ricerca ha come obiettivi rivelare le tante storie che forse non sono ancora state raccontate. Rivisiti il passato per poi dar voce a forme espressive legate al mondo della cultura alternativa e underground. Come fondi tutte queste cose assieme?

«Non esiste o, per lo meno non la vedo, una linea netta tra passato e presente, tra alto e basso, tra tradizione e sperimentazione. La mia ricerca parte sempre da un ascolto – dei luoghi, delle persone, dei materiali. Certe pratiche rituali, certi codici del folklore, sono ancora attivi, solo cambiano forma ma le domande alle quali cercano di rispondere sono sempre e comunque le stesse. E la cultura underground, quella più viscerale, è spesso il luogo dove queste energie si manifestano senza mediazioni. Il mio lavoro è una sintesi instabile, un luogo in cui queste cose si incontrano, a volte si scontrano, ma mai si annullano».

Natura ed hardcore, telepatia e mondanità. Insomma, appena si cerca di definirti o collocarti, appena si cerca di intuire uno stile o un’etichetta da darti, confondi le acque. Si potrebbe definirti camaleontico, ma forse il mimetizzarti non è il tuo obiettivo. Come ti piacerebbe essere definito?

«Non ho mai cercato una definizione. Mi interessa piuttosto il movimento, la trasformazione, il rischio. Ogni progetto ha bisogno di una forma propria, e quella forma non può essere imposta da una categoria. Se proprio serve una definizione, forse potremmo usare “contaminatore”. Non nel senso di chi sporca, ma di chi mette in relazione, di chi scardina i confini. L’etichetta è sempre un punto d’arrivo, io preferisco stare nel punto di partenza».

La tua ‘indisciplina’ tocca non solo il mondo dell’arte, ma anche quello della musica. Penso allo spazio che hai fondato a Vittorio Veneto, Codalunga, ma anche al gruppo Ninos Du Brasil. Come concili la tua ricerca in ambito artistico con quella più allargata legata alla musica?

«Per me non sono ambiti separati. Sono linguaggi che uso in modo parallelo, a volte si intrecciano, altre volte si rispondono a distanza. Codalunga è nato come uno spazio di libertà totale, dove poter far accadere cose senza doverle spiegare in anticipo. Con Ninos Du Brasil abbiamo portato la performance al centro della pratica musicale, il ritmo come corpo, come trance. Non credo sarò mai un conciliatore».

In questi giorni sei in mostra a Palazzo Reale a Milano con la mostra Pastorale, allestita nella Sala delle Cariatidi: un progetto che lega sia la storia del luogo con delle possibili vie di fuga. Mi racconti cosa vedremo in questa bellissima sala?

«Pastorale è un attraversamento. La Sala delle Cariatidi porta dentro di sé la memoria delle ferite, del tempo, del potere. Ho voluto confrontarmi con quella stratificazione, ma anche trovare delle fenditure, degli spiragli. L’allestimento è pensato come un paesaggio interiore, sospeso tra attrazione e inquietudine. C’è la natura, ma è filtrata, evocata. C’è il suono, ma arriva come un’eco. È un viaggio dentro e fuori, tra quello che c’era e quello che potrebbe esserci».

Ultima domanda. A cosa stai lavorando?

«Sto ultimando la scultura per Piazza della Signoria a Firenze e ad ottobre avrò una mostra personale alla Kunsthalle di Bangkok. Con Ninos Du Brasil stiamo ultimando un nuovo album e contemporaneamente stiamo lavorando alla ristampa dei primi due album dei With Love».