Olly all’Ippodromo: La grande festa dei depressi fortunati
Ieri sera Olly è salito per la prima volta sul palco dell’Ippodromo di Milano. Un debutto che non poteva essere più potente: travolgente, sold out. Non era semplicemente musica: era la prova che una generazione intera si è ritrovata, quasi 35mila persone, tutte insieme, sotto lo stesso cielo
Olly, sì, quello del trionfo a Sanremo. Ma soprattutto l’artista che ha preso le piccole ossessioni di tutti i giorni e le ha trasformate in inni generazionali. Cosa ci si aspetta da un creatore di mondi così? La risposta non è una risposta, è un’energia che vibra nell’aria umida di inizio settembre all’Ippodromo di San Siro. Ieri sera ero lì, a respirare lo spettacolo. Milano al tramonto è un bagno di luce viola, e sotto un mare di persone si muove compatto. Il fango incolla le scarpe, segno che qui non si resta spettatori: ci si sporca insieme, si vive dentro il concerto.
Ancora prima che Olly appaia, la folla canta già a squarciagola, cellulari alti come accendini digitali. Un esercito di ventenni e trentenni che ridono, si abbracciano, si passano una bottiglia d’acqua. Non sono spettatori, ma una comunità in cerca di un rito, pronta a riconoscersi in un coro collettivo. L’aria crepita di un’elettricità precisa: quella di una generazione che ha trovato finalmente il suo cantastorie.

Il racconto della festa: Olly non si è risparmiato
L’intro tiene col fiato sospeso. Poi eccolo, Olly, che esplode come un petardo su «È festa». Vestito con l’uniforme da cowboy contemporaneo della sua generazione (canotta bianca, jeans flare e una giacca in pelle che dura giusto il tempo di qualche brano). La folla diventa un unico organismo che salta. Il basso entra nello stomaco, la voce scalfisce. Dopo appena tre canzoni è già commosso, senza parole. È il poeta dei cantieri e dei Giapponi immaginari che conquista un ippodromo. Non canta: spara parole. Il suo flow è un incrocio tra cantautorato viscerale e rap garagearo. Pop come un pugno in faccia, subito seguito da una carezza. La luna crescente osserva la scena. In prima fila una cresta rossa spicca tra la folla, c’è chi si abbraccia, chi ride, una coppia che si bacia su «A noi non serve far l’amore». Sono i personaggi del suo film.
Poi, il primo colpo di scena: Emma sale sul palco. «Ho voglia di te» diventa un duetto a sorpresa, una restituzione, quasi un passaggio di testimone. Olly continua a cantare, intrattenere ed emozionare con tutta l’energia che ha in corpo. Questo si percepisce. Una tavola imbandita approda sul palco. Del buon vino, la band che brinda, e Olly con loro. «A noi, a voi, a tutta vita, a Milano». Si accende una sigaretta – e io, talmente coinvolta, mi ritrovo a ripetere lo stesso gesto. È un’immagine potente: non performance, ma complicità. È una festa tra amici in tutto e per tutto. Cantano, ballano, si divertono. Poi, la dedica a Genova. E la citazione inevitabile, doverosa: Gaza. Un «che schifo» essenziale che cade nel silenzio più assordante. La festa si interrompe per un attimo, perché la festa vera non può ignorare il mondo.

Arriva un altro ospite: Enrico Nigiotti. Insieme cantano «Sopra la stessa barca». Da lì un’altra escalation di emozioni, fino al momento di massima vulnerabilità condivisa: «Depresso Fortunato». L’inno che legittima la contraddizione. La malinconia qui è attiva, non passiva: non ci si abbandona, si balla sopra. Più avanti, uno strappo di chitarra squarcia l’aria per qualche minuto, e subito dopo il ritorno all’energia pura con «Scarabocchi». Il cerchio si chiude dove era iniziato, ma più consapevole.
Il finale è un coro: «Devastante» cantata dalla folla dalla prima all’ultima parola, un mantra generazionale urlato contro il cielo di Milano. Quasi 35mila voci che si intrecciano, stonate e perfette, in un unico respiro. Scende dal palco, saluta, abbraccia i fan. Sembra finita. Invece no. Olly porta il mare in città con «Menomale che c’è il mare». Un bagno purificatore dopo la tempesta emotiva.

L’annuncio a sorpresa: il suo primo stadio a Genova nel 2026
E prima di salutare, una promessa. Un annuncio che sa di storia: il 18 giugno 2026 canterà allo stadio Luigi Ferraris di Genova. Lì dove, ventun anni fa, l’ultimo a esibirsi era stato Vasco Rossi. Da allora, nessuno. «Tutti a casa», grida Olly. Non è un addio: è un ritorno alle radici che inaugura un nuovo inizio, ancora più grande.
Quando le luci si riaccendono per davvero, l’ippodromo è un campo di battaglia felice. Olly non ha salvato nessuno, non serviva. Ha solo creato per più di due ore uno spazio sicuro dove essere devastati e fortunati, allegri e depressi, tutto insieme. Perfettamente imperfetti. La sua grandezza è nell’essere un peer iper-dotato che ha imbracciato la chitarra per restituire alla sua generazione un ritratto in cui riconoscersi. Senza filtri, senza abbellimenti. E alla grande festa, i vestiti migliori sono quelli che hai già addosso, con tutte le loro grinze.
