Guarda a Fukushima la prima personale italiana dell’artista star giapponese a Palazzo Reale, mentre presenta il suo primo lungometraggio

Galeotta fu la Sala delle Cariatidi. Pare sia stata la location, quella che un tempo, prima della guerra, fu sala da ballo, con la sua bellezza devastata e glorificata a strappare infine il sì alla mostra a Milano di uno dei più grandi artisti contemporanei: Takashi Murakami. “Sono felice di esporre nello stesso luogo in cui espose Maurizio Cattelan” – dice – “un amico che rispetto moltissimo”.

Murakami è come una rock star in Giappone, a capo di una factory, Kaikai Kiki Co., Ltd., che realizza la perfetta equazione tra industria e industria culturale: le collaborazioni con la moda sono note, le sue personali si corredano di un merchandising d’eccezione.

Si presenta alla conferenza stampa con la camicia punteggiata da un’antologia di personaggi ripresi dalle sue opere e un copricapo a forma di medusa in testa – sembra una grossa meringa bianca e rosa, ma è la graziosa protagonista del suo primo lungometraggio Jellyfish Eyes – e commenta ridacchiando:

Volevo dare l’impressione di essere uno zio simpatico, allora mi sono vestito così. Ma sono un artista molto serio.

E non c’è dubbio che la mostra a Milano rappresenti uno spostamento dall’estetica del ‘Superflat’. Sotto la superficie giocosa, sotto il fumettone tirato a lucido, e l’uso iperbolico del colore si nasconde una realtà tormentata e tragica che peraltro si manifesta immediatamente a uno sguardo più attento nelle figure emaciate e sconvolte, che si accalcano in primissimo piano nel monumentale trittico in mostra. Murakami parla di ansia, quella post-Fukushima, della paura delle radiazioni; un’ansia congenita, è facile concludere, ma comunque un’ansia di ritorno, che i fatti recenti hanno instillato nella vita dei giapponesi come nel suo lavoro. Così chiosa:

Il significato dell’arte e dell’arte religiosa mi interessa molto. Queste opere forse non sono molto importanti, ma sono opere molto sincere.

Si tratta di una dozzina di nuovi lavori, prodotti dal momento in cui per la prima volta era stata ventilata la mostra a Palazzo Reale, oltre un anno fa, che arriva ora, fuori programma, a rinverdire l’estate milanese: “In questi dipinti il mondo è sotto l’attacco di forze umane e naturali, ma viene salvato dagli antichi Arhat (le figure della tradizione buddista che hanno raggiunto la perfezione spirituale, n.d.r.)”, racconta il curatore Francesco Bonami, che segue Murakami dal 1997 e ama definirlo “un bambino antico” – spiega -“perché porta con sé tutti gli elementi dell’infanzia e dell’adolescenza, ma anche l’antichità della tradizione giapponese”.

È lo stesso mix che si trova nel film presentato in anteprima europea a Milano. Una sorta di compendio della cultura nipponica, infilato tra la bomba atomica e lo tsunami del 2011, intriso di un immaginario che va dai manga ai Pokemon, cita un certo cinema di genere: ‘Ne faremo forse dieci di questi film’, annuncia Murakami – e già si sta dedicando al sequel – lasciando intendere che Jellyfish Eyes è solo l’inizio della saga.

  

“Takashi Murakami, Il Ciclo di Arhat”, Palazzo Reale, Milano, 24 Luglio -7 Settembre, accessibile anche attraverso il portale yoox.com 

Proiezione in anteprima per il pubblico di Jellyfish Eyes: Giovedì 24 Luglio, Cinema Apollo, Milano, ore 20.00