Intervista ad Alessandro D’Alessio, mixologist in cappello
Foto: Riccardo Piazza

Intervista ad Alessandro D’Alessio, mixologist in cappello

di Simona Santoni

Fresco vincitore della Campari Bartender Competition, alla Mostra del cinema di Venezia ha deliziato con due cocktail speciali, che sanno di profumi di terra campana. Innamorato di shaker, cultura tiki e rumori da bar, si è raccontato a ICON

Note erbose e agrumate, profumi di terra campana e un’idea allegra di Caraibi tra i canali e il red carpet della Mostra del cinema di Venezia 2024. All’interno di Casa I Wonder, lo spazio conviviale per media e talent dei film curato dalla società di distribuzione e produzione cinematografica I Wonder Pictures, abbiamo visto Alessandro D’Alessio in azione, alla sua “consolle”. Tra shaker, jigger, ghiaccio e bicchieri.

30 anni, mixologist fresco vincitore della Campari Bartender Competition, per il festival lagunare ha ideato due cocktail speciali, al sapore stuzzicante di pomodori di Casa Marrazzo, l’azienda campana da quattro generazioni, specializzata nella produzione di conserve vegetali e nella trasformazione artigianale dei pomodori.

Per Alessandro D’Alessio, mixologist del Rita’s Tiki Room di Milano, un’altra occasione per giocare con gli ingredienti e provare mix insoliti, come alchimista del gusto pronto a trasformare ogni drink in un sorriso e in un’esperienza di sensi. Per noi la bella opportunità di intervistarlo.

Alessandro, da quanto tempo sei mixologist e come ti sei avvicinato a questa professione che è quasi un’arte?

«È da più di 10 anni. Più che un lavoro è un vero e proprio stile di vita. È una passione, altrimenti non sarebbe possibile coltivarla ogni giorno con i tanti sacrifici che comporta. Avevo 18 anni quando ho frequentato il primo corso da bartender basic, per approcciarmi quindi sempre più al mondo della mixology. Sono originario di Monopoli. A 19 anni ho partecipato a catering per eventi importanti in Puglia. Ho iniziato a fare le mie esperienze nei bar, per trasferirmi poi a Londra. Dopo il Covid sono tornato in Italia e da quasi quattro anni sono alla volta del Rita’s Tiki Room a Milano».

Alessandro D'Alessio
Foto: Riccardo Piazza
Alessandro D’Alessio presso Casa I Wonder al Lido di Venezia

Ma cosa si intende precisamente con il termine “mixology”?

«Sembra che oggi tutti siano esperti di mixology ma secondo me la mixology si riferisce a noi che studiamo, amiamo e cerchiamo di diffondere questo verbo tutti i giorni. È la storia della miscelazione. In realtà io non mi sento proprio un mixologist ma piuttosto un barista a tutto tondo, un bartender, un barman. Con il termine barista si fa più riferimento a colui che fa il caffè. Barman è colui che fa i cocktail. In America il barman è definito bartender. Il termine bartending si è sviluppato dagli anni ’80-’90. “Mixologist” è la parola che racchiude un po’ tutto questo».

Qual è il tuo strumento irrinunciabile da mixologist, la tua bacchetta magica?

«Gli shaker, che mi mantengono sempre in forma: ho le braccia di Jury Chechi», sorride D’Alessio. «Un solo strumento però non basterebbe. La vera bacchetta magica, in verità, che mi dà stimoli tutti i giorni, è tutto quello che vivo all’interno del bar: i clienti, i rumori, gli shaker, i frullatori che girano. Ho la fortuna di lavorare in un bar che mi permette di vivere tutte queste emozioni ogni giorno».

Come definiresti il tuo stile di miscelazione?

«Lavorando al Rita’s Tiki Room, ho sposato da quattro anni la miscelazione tiki, che avevo iniziato a studiare già da prima. È una miscelazione di stampo americano che si sta riaffacciando in Italia da pochi anni. Culturalmente risale a più di duemila anni fa, anche se a livello di miscelazione è da ricondurre agli inizi degli anni Trenta. Nasce ad Hollywood grazie a Don the Beachcomber, un grande innovatore per la mixology».

Da Hollywood alla Mostra del cinema di Venezia il salto è breve…

«Don the Beachcomber, tra l’altro, ha lavorato come scenografo per moltissime case cinematografiche in America. Il cocktail bar tiki, grazie a lui, è diventato meta di tante star di Hollywood. Tantissimi divi frequentavano il suo bar, il Don the Beachcomber Cafè, che divenne famosissimo, tanto che poi ne aprì altri. Il cinema è molto presente nell’arte della miscelazione».

Alessandro D'Alessio
Foto: Riccardo Piazza
I cocktail Yellow Snapperita e Marrazzo’s Negroni

Al Lido di Venezia hai servito due cocktail speciali, molto apprezzati: Yellow Snapperita e Marrazzo’s Negroni. Ingredienti speciali: i pomodori pelati gialli in succo di Casa Marrazzo e la confettura di Pomodoro San Marzano DOP Casa Marrazzo. Puoi raccontarceli?  

«Nell’evento alla Casa della Critica, in partnership con Casa Marrazzo e grazie ad I Wonder Pictures, ho creato due drink ispirati a due icone mondiali del bere miscelato. Avevo avuto prima l’opportunità di assaggiare i tanti prodotti super buoni di Casa Marrazzo, dalle confetture alle marmellate di mandarino o bergamotto, ma ho deciso di lasciarmi stimolare dal pomodoro. Ho scelto il pomodoro giallo del Vesuvio in succo per creare un twist sul Bloody Mary, o meglio, sul Red Snapper, che da rosso diventa quindi giallo (Red Snapper e Bloody Mary sono lo stesso drink, solo che il primo è base vodka, l’altro è base gin). L’ho chiamato Yellow Snapperita: alla parola Snapper ho aggiunto “ita” per richiamare il Rita, il bar per cui lavoro».

E il Marrazzo’s Negroni invece da cosa deriva?

«Non potevo non rivisitare uno dei più grandi cocktail aperitivo, il Negroni, il drink più bevuto al mondo. Il Marrazzo’s Negroni è un twist che ha sentori di chinotto, tondi e agrumati, accompagnati da un side di confetture di pomodoro San Marzano DOP di Casa Marrazzo. La confettura, servita on top su una cialda di mais, al di sopra del bicchiere, ha donato al drink una nota dolce, persistente durante la bevuta. È stata l’occasione per creare ricette interessanti e intanto valorizzare la materia prima italiana, un valore aggiunto per i cocktail».

Com’è nata questa collaborazione?

«La casa di distribuzione e produzione cinematografica I Wonder Pictures, nella veste del loro direttore culinario chef Michele Casadei Massari, ha deciso di invitarmi, in partnership con Casa Marrazzo, ed è stato subito amore. Ci hanno lanciato la sfida di inventare un aperitivo per festeggiare il film Peacock, presentato durante la Mostra, e non potevo non cogliere l’opportunità di creare le due ricette. È stata la mia prima volta alla Mostra del cinema di Venezia ed stato davvero divertente. Che bello brindare con tutti e vedere i sorrisi di attori e professionisti del cinema!».

È più importante la mano del professionista o la qualità del prodotto che utilizza?

«Sono importanti entrambi. Sicuramente un prodotto di qualità arricchisce molto il cocktail, ma è ovvio deve esserci la mano del professionista».

Alessandro D'Alessio
Foto: Riccardo Piazza
Alessandro D’Alessio

Se dovessi creare un cocktail ispirato a un film iconico, quale sceglieresti e con quali ingredienti?

«Non è semplice dirtelo così su due piedi perché bisogna essere ispirati, impiegarci tempo, intuire gli ingredienti con calma. Ci sono comunque tanti cocktail iconici legati a film: si pensi a Vesper, Martini, French 25. Recentemente sono stato a Casablanca in Marocco, al Rick’s Café, ispirato al bar del film Casablanca che rende iconico un drink come il French 75, in realtà nato in Francia all’Harry’s Bar e tra salotti parigini. Connessi al cinema ci sono anche tanti drink tiki, cocktail ambientati alle Hawaii, come il Mai Tai. In passato, a una competition, ho creato un Mai Tai dal nome Presley Tai, ispirato al film Blue Hawaii del 1961 interpretato da Elvis Presley, dove compariva appunto il Mai Tai».

Hai appena vinto la decima edizione della Campari Bartender Competition. Che significato ha per te?

«È stato uno dei trampolini di lancio più importanti della mia carriera. Mi rende orgoglioso e mi dà stimoli per il futuro. Ho lavorato molto per riuscirci: sono stato bravo e fortunato. È un grande inizio per quelli che saranno gli obiettivi fino a maggio prossimo: c’è tanto da fare e tanto su cui lavorare. Presenterò un progetto alla Campari Academy che mi accompagnerà per tutto l’anno».

C’è un drink che ti rappresenta?

«Sicuramente i drink di ispirazione tiki e tropicali sono quelli che mi rappresentano di più, quelli che fortunatamente faccio ogni giorno nel bar in cui lavoro. Quindi i drink shakerati come il Daiquiri o anche un Mai Tai, i cocktail che nascono intorno agli anni ’30 fino agli anni ’70-’80. Non ho però un drink che mi rappresenta al 100% perché mi piace farli un po’ tutti. Non sono un grande amante invece dei cocktail mescolati storici, pre-proibizionismo o del periodo del proibizionismo, quali Manhattan, Old Fashioned e Sazerac, perché tendenzialmente non mi piace berli».

Una curiosità: ti vediamo spesso in cappello, è un elemento del look o uno stimolo alla tua creatività?

«Sono un grande amante dei cappelli, ne ho davvero tanti. In più da quando sono al Rita’s Tiki Room ho deciso di creare la mia immagine: è un elemento importante perché poi i clienti o anche i turisti si ricordano di te. Mi è capitato, anche a distanza di anni, che venissero al bar clienti da New York indirizzati da amici: “Mi hanno detto che c’era un ragazzo col cappello molto bravo”. Al lavoro non lo indosso fino a un certo orario. Poi, quando mi  serve un po’ di adrenalina o di carica, lo metto e mi diverte molto. È il mio oggetto di scena».

Alessandro D'Alessio
Foto: Riccardo Piazza
Il Marrazzo’s Negroni

A proposito di estetica, quanto conta in un cocktail l’elemento scenografico?

«Tantissimo. Lavorando in un bar tiki usiamo bicchieri bellissimi di ceramica. Spesso il cliente quando legge la lista sceglie il drink più per il bicchiere che per quello che c’è dentro. E poi posta la sua storia su Instagram: l’aspetto social è portante. Se il drink è anche buono vinco doppiamente. L’estetica oggi punta sul minimalismo: in alcuni bar in giro per il mondo si servono cocktail su ghiaccio e basta, in bicchieri super chiari. Al tiki bar di Milano arricchiamo i bicchieri con del fumo, ghiaccio secco, a volte spruzziamo della cannella con coreografie di fuoco».

Le tue fonti di ispirazione?

«Per un mixologist ce ne sono di innumerevoli, dipende da quello che si vuole creare. Si possono trovare anche nella vita di ogni giorno. In passato ho letto molti manuali di mentori della miscelazione ma ultimamente faccio fatica a trovare tempo per leggere libri quindi mi piace sfogliare blog sul web, magari quando sono in metro o in viaggio. Quando ho il cellulare a portata di mano cerco ispirazione per creare drink oppure per creare dei concetti perché il drink è qualcosa di concettuale, si parte da un’idea».

L’idea che ti ha portato sugli allori della Campari Bartender Competition?

«Ho creato un vero e proprio percorso, che ho definito Campari Journey. Il mio drink iniziale si chiamava Maramao, come la canzone Maramao perché sei morto?. Sono partito da questo brano per realizzare un Negroni in stile tiki, aggiungendo spezie come cannella e chiodo di garofano, quindi frutta tropicale come l’ananas, creando un drink tiki frullato utilizzando il blender. Per servirlo ho utilizzato un cono di ghiaccio a forma di bottiglietta di Campari Soda. Lungo questa storia, il drink finale vincente è stato Linea Rossa, che ha il nome della prima metro di Milano, nata nel 1964, che collega il Duomo, epicentro del consumo del bere Campari, fino a Sesto San Giovanni, sede dell’azienda Campari».

Se avessi una bacchetta magica vera, cosa chiederesti al futuro?

«Senza pensarci, ti direi subito: vorrei trasferirmi nei Caraibi tra due minuti. E magari aprire il mio tiki bar. In realtà, però, sono in un periodo di totale transizione. Sto concentrando tutte le mie forze per questo anno che verrà: voglio dedicare il meglio di me al Rita’s Tiki Room e al progetto Campari e ad eventuali altre collaborazioni, magari sempre con Casa Marrazzo. Voglio vivermi appieno i progetti futuri. Sono uno che guarda al futuro prossimo, quindi day by day, senza scrutare troppo in là. Di obiettivi ne ho tanti ma non mi va di spoilerarli, per scaramanzia. Farei fare al futuro il suo corso».