Cosa sono i listening bar, e perché tutti ne parlano
Courtesy Dexter Sound & Bites via Instagram

Cosa sono i listening bar, e perché tutti ne parlano

di Digital Team

Hai presente quei bar dove devi urlare anche solo per ordinare un drink? Ecco, dimenticali. Nei listening bar nessuno alza la voce, il DJ non prende richieste, e il disco gira dall’inizio alla fine, come Dio (o Miles Davis) comanda.

Non succede spesso, ma quando entri in un listening bar la prima cosa che senti è… il silenzio. O meglio, quel tipo di silenzio che si piega, si inclina, si modella attorno al suono caldo di un vinile che gira lento. Nessun vociare, niente bicchieri sbattuti al bancone. Solo un disco che inizia, e un’intera sala che gli dà retta. È lì che capisci: sei in un posto dove si ascolta per davvero.

Negli ultimi tempi, spuntano ovunque. In città come Milano, Londra, Tokyo o New York, ma anche in quartieri insospettabili; tra una galleria d’arte e un negozio di dischi, a metà tra il cocktail bar di design e una sala d’ascolto degli anni ’70. Spazi essenziali, progettati al dettaglio: divani bassi, luci calde, scaffali di vinili impilati come fossero libri sacri, e soprattutto un impianto hi-fi che sembra uscito da una puntata di Mad Men girata da Wes Anderson.

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Courtesy Lubna Milano via Instagram

I listenig bar arrivano dal Giappone con amore

Prima che diventasse una tendenza instagrammabile, l’idea nasceva altrove. In Giappone, per la precisione, dove già nel 1929 venne inaugurato il primo – di tanti – Jazz Kissa (letteralmente “caffè jazz”): un bar che non serviva solo caffè, ma soprattutto jazz. Niente dj set, niente chiacchiere di fondo. Solo vinili, divieti di parlare a voce alta, e un’atmosfera monacale. Da lì in poi, tra guerre, rinascite e dischi importati a fatica, si è costruita una vera cultura dell’ascolto. E no, non quella del tipo “metto Spotify mentre mi trucco”. Ascolto-ascolto. Quello serio. Quello dove stai zitto e segui il disco dall’inizio alla fine, come un film d’autore.

Il concetto esplose tra gli anni ’50 e ’70, quando andare a un concerto jazz costava troppo, e ascoltare un disco intero in un Kissa diventava quasi un atto politico: rendere la musica accessibile a tutti. In questi locali, molti dei quali ancora oggi aperti, con impianti audio costruiti su misura, le selezioni musicali erano curate dal proprietario stesso, una sorta di monaco del suono dai gusti musicali molto precisi. E no, non potevi chiedergli di cambiare disco. Quel disco lo ascoltavi fino alla fine. Tutto. Senza skip, senza shuffle. Senza distrazioni.

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Courtesy jazz_kissa via Instagram

E poi arrivammo noi (con un Negroni in mano)

In Occidente ci abbiamo messo un po’, ma alla fine l’abbiamo capita. Sarà stato il lockdown, che ci ha obbligato a riscoprire il piacere dell’ascolto domestico. Sarà che siamo tutti esausti da playlist fatte con l’algoritmo, da cuffiette di plastica e da cocktail bar dove il volume è così alto che l’unico modo per farsi sentire è urlare in faccia a chi ci accompagna.

E così eccoli qui, i nuovi templi del suono, i listening bar. Li trovi nascosti tra le vie di Milano, spesso senza insegna, ma basta il primo brano su vinile che parte a guidarti come una sirena. Da Lubna, nella zona di Fondazione Prada, l’impianto domina la sala come una scultura industriale. Poi c’è Futura, in zona Darsena, dove puoi ordinare un vino naturale in abbinamento a un album di Sakamoto. Da Onda, in zona XXII Marzo, si ascolta in cuffia, tutti insieme ma in silenzio, come in un rave gentile sotto calmanti. C’è Gesto, con la sua sala “Malinconia” dove puoi sorseggiare sakè mentre ascolti musica elettronica ambientale su diffusori artigianali. E ancora Dexter Sound & Bites, Bene Bene, Ronin: ognuno con il suo linguaggio, il suo suono, la sua identità.

Ma attenzione, qui non si viene per socializzare, fare stories o ordinare shot. Si viene per restare zitti e farsi attraversare da un disco come se fosse una seduta di terapia sonora. Con un cocktail buono, possibilmente. E luci basse. E divani che sembrano sussurrarti “rilassati, amico”.

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Courtesy Dexter Sound & Bites via Instagram

Ma cosa ci troviamo davvero dentro?

Una cosa strana succede. All’inizio, quando entri, ti sembra di dover fare qualcosa. Parlare. Postare. Ordinare. Poi il vinile parte e… resti fermo. Ascolti. Magari è un disco jazz. O In a Silent Way di Miles Davis. O Selected Ambient Works 85-92. Il punto non è quale disco, ma che quel disco è l’unico che conta in quel momento. L’esperienza è totalizzante, multisensoriale. Il suono ti arriva pieno, caldo, rotondo. Il cocktail profuma. Il legno del bancone ha una patina consumata che racconta storie. Tutto è rallentato, ma preciso. Non è nostalgia: è contemporaneità che suona meglio.

E poi c’è quella cosa curiosa: in un listening bar, si parla meno ma ci si sente più connessi. Non per forza tra amici. Anche con gli sconosciuti. Come se ascoltare la stessa traccia insieme – senza dire una parola – creasse una complicità nuova, rarefatta, sotterranea. Un po’ come andare al cinema, ma con un Martini in mano. E fidati, dopo cinque minuti di ascolto, ti sembrerà la cosa più sensuale che tu abbia mai fatto in un locale, vestito. E no, tutto ciò non è solo per audiofili radicali.

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Courtesy House of Ronin via Instagram

Non serve infatti essere esperti di impianti valvolari o avere collezioni di vinili pressati in Giappone. I listening bar piacciono perché offrono un’alternativa elegante alla movida urlata. Sono il posto dove porti qualcuno quando vuoi colpirlo senza strafare. Dove vai da solo quando vuoi stare in compagnia, ma in modo ovattato. Dove non devi fare nulla, ma solo esserci, con orecchie, occhi e (magari) un bicchiere in mano.

In fondo, è un ritorno al rispetto. Per la musica. Per il tempo. Per lo spazio. Per il gusto. Per l’ascolto. Cose che avevamo dimenticato, presi a correre da una notifica all’altra. Nei listening bar tutto questo ritorna. A bassa voce, certo. Ma con una presenza che vibra… come un basso vintage in un impianto da 200 watt. E forse è proprio questo il lusso oggi: fermarsi ad ascoltare, e basta. Insomma, da Tokyo a Milano, passando per una puntina che scivola su un vinile lucido: il futuro dell’uscita serale potrebbe suonare meglio. E più piano.