

L’Italia non è un Paese per (grandi) concerti
In Italia abbiamo un problema con i grandi eventi musicali. Non è (solo) una questione di logistica: manca una vera cultura degli spazi per la musica live. E la crisi delle location si sente sempre di più
Bad Bunny arriva in Italia. E già qui bisognerebbe suonare la sirena dell’entusiasmo collettivo. Uno dei performer più seguiti del pianeta, re delle classifiche globali, energia pura sul palco e fuori, si ferma dalle nostre parti. Dove? All’Ippodromo. E no, non è una battuta. Il concerto italiano del tour mondiale si terrà in uno spazio pensato per le corse dei cavalli.
Qualcosa non torna. Ma chi frequenta concerti da queste parti lo sa già: in Italia, quando si parla di musica live di alto livello, siamo spesso costretti a giocare con spazi di fortuna, con palchi improvvisati in location che non sono nate (né cresciute) per questo. Non è un problema di gusti musicali, ma proprio di geografia culturale. E di visione a lungo termine che, spoiler: manca.

Lo chiamiamo concerto, ma spesso è un campo di battaglia
Chiunque sia stato a un festival estivo in Italia sa che l’esperienza live può facilmente diventare un test di resistenza: o per il caldo, o per la fila chilometrica al bagno, o per il suono che rimbalza come una pallina da flipper tra torri luci e recinzioni. Lì, nella folla compressa, tra la transenna e il camioncino della birra, ci si rende conto che forse non era proprio il massimo pagare 80 euro per vedere un puntino sul palco e sentire l’eco della cassa in delay. Il problema? Gli spazi. Meglio: l’assenza strutturale e culturale di spazi pensati per la musica.
Nel Paese dell’Opera e dei teatri storici, manca una cultura contemporanea delle venue. Quella roba seria che altrove esiste: arene permanenti, impianti acustici fissi, spazi progettati per garantire visibilità, esperienza e comfort. In Italia, invece, ogni concerto sembra una missione speciale con allestimento in tempo record, tra permessi comunali, vincoli acustici, logistica a ostacoli. Lo stadio è il massimo che possiamo offrire. Il risultato? Location che non reggono il confronto. Né con la fama dell’artista, né con l’aspettativa del pubblico.

Spoiler: non è (solo) un problema di logistica
Certo, ci sono intoppi burocratici, normative diverse da città a città, limiti di orario che in alcuni casi rendono impossibile anche solo immaginare un festival notturno. Ma il punto è più profondo: manca la cultura degli spazi musicali. Manca l’idea che un’arena per concerti non sia solo una scatola, ma un luogo vivo, con una sua dignità artistica. Altrove – dal Portogallo alla Germania – si è investito su distretti musicali, su venue flessibili e performanti, su sinergie tra pubblico e privato. In Italia, invece, anche i festival più noti sono spesso montati da zero e smontati dopo pochi giorni. Nessun radicamento, nessuna crescita. Solo un eterno “ci arrangiamo”.
Eppure l’Italia potrebbe essere un paradiso per i live
Clima favorevole, turismo culturale, bellezze naturali, storia e food. Gli ingredienti ci sono tutti. Quello che manca è la visione. Un investimento deciso per creare spazi iconici (e funzionali), una filiera organizzativa preparata e valorizzata, regole semplici e chiare per fare eventi di qualità. Finché non cambia questo assetto, ci toccherà accontentarci degli ippodromi. O di sogni stonati a cielo aperto. Con il rischio di vedere sempre meno star globali scegliere l’Italia. Non perché non ci amano, ma perché non sanno dove esibirsi. Letteralmente.