Carlos D’Ambrosio
Negli ultimi anni si è imposto come uno dei nomi più promettenti dello stile libero italiano. Ma tempi e medaglie sono il traguardo di un percorso fatto di cadute e grandi ripartenze
Certi atleti sembrano costruiti per il palco del vincitore. Idee chiare, disciplina, risultati che si accumulano, un talento che cresce quasi predestinato. Carlos D’Ambrosio non è di quelli. La sua storia è fatta di notti in cui si vorrebbe dormire e non si riesce, momenti nei quali l’acqua sembra più pesante del corpo che dovrebbe sostenerla.
Forse è proprio questo a renderlo diverso: un ragazzo del 2007 cresciuto tra Valdagno e Verona, origini napoletane e cubane, un nuotatore che ha collezionato medaglie con la stessa fiducia con cui ha collezionato cadute e ripartenze.

Negli ultimi anni si è imposto come uno dei volti più promettenti dello stile libero italiano: il più giovane a Parigi 2024, poi l’argento mondiale di Singapore, il bronzo di Budapest, i record nazionali frantumati. Ma, dietro ai tempi e alle medaglie, c’è una voce che racconta un percorso tutt’altro che lineare. La pressione, per esempio. Non la nega, non la rende neanche romantica: dice solo che «si gestisce con l’esperienza».
Che più entri in acqua in contesti importanti, più capisci quanto vali davvero. Lo dice con la concretezza di chi ha imparato presto che il talento non basta, che corpo e testa non sono sempre pronti all’alleanza quando gliela chiedi. C’è stato un tempo in cui le gare lo consumavano. «Dormivo male, avevo paura di un brutto risultato», dice guardando le prime fasi della sua carriera.

È un dettaglio che sorprende in un ragazzo abituato a vincere, ma è lo stesso dettaglio che dà peso a tutto il resto. Quell’ansia lo ha accompagnato fino al punto più basso, quando gli è parso che il nuoto potesse diventare un’illusione. «Avevo quasi deciso di lasciare. Era un periodo in cui ero stato chiamato alle Olimpiadi di Tokyo come riserva, e secondo me non era giusto. Ci ero rimasto male».
La stagione successiva fu una corsa contro un risultato che non arrivava, un’idea di sé che rischiava di evaporare. Lì succede qualcosa. Un ragazzo di 17 anni che si guarda allo specchio e si chiede, senza troppi drammi «forse non è questa la tua strada».
Invece, proprio da quella incrinatura, esce una possibilità. Decide di fare “un’ultima gara”; è una leggerezza nuova, quasi uno svuotamento. Niente aspettative, né ambizioni di riscatto immediato. Va, nuota. E vince una tappa di Coppa del Mondo. È la svolta: «Ho capito che dovevo liberarmi dalle aspettative». È un’affermazione semplice, quasi disarmante.

D’Ambrosio parla spesso del cadere: «Sono una persona che cade molto. E ormai non ho più paura». Non lo dice per posa, né gli interessa costruire un personaggio, ma come si racconta una regola imparata a forza di sbatterci contro. La caduta come metodo.
Oggi è un atleta di livello internazionale, ma conserva una cosa che gli adulti dello sport spesso lasciano a margine: «Faccio un lavoro che è anche un gioco. Non devo perderlo di vista». La frase mi resta addosso più di ogni altra. Carlos D’Ambrosio ha già iniziato la sua traiettoria mondiale, ma la parte più interessante è che sembra aver capito, molto presto, qualcosa che di fatto si scopre tardi: si può cadere e ricominciare, e a volte il salto vero nasce proprio lì.