Alessandro Bedetti

Alessandro Bedetti

Niente accademie, né gavetta. Lui ha studiato sui social. La recitazione è venuta dopo. Ma la maturità già c’era: è con quella (e, ammette, un pizzico di fortuna) che si sta affermando

di Ester Viola

Non ha una faccia che qualcuno riuscirebbe a descrivere, Alessandro Bedetti. Poco comune, il bello qui non è decifrabile. Sicuramente non ha niente di questo secolo. Viene da qualche Grecia antica, come quel corpo, o il taglio classico degli occhi chiarissimi e freddi. È nel cast della serie internazionale Those About to Die (2024), dove veste i panni di Hermes, lo schiavo-amante di Domiziano. Tra corruzione e scontri di potere, combattimenti di gladiatori, è un kolossal formato serie tv che racconta l’impero del 79 d.C., stranamente somigliante agli ultimi tempi contemporanei.


La serie, diretta da Roland Emmerich, ha dato ad Alessandro la possibilità di misurarsi con una produzione ambiziosa, confermandolo tra gli attori emergenti più interessanti della scena internazionale. Ha solo 23 anni, è di Bologna, si è fatto conoscere in pochissimo tempo come una delle nuove promesse del cinema italiano. Sembra avere tutto. Carisma, presenza scenica, buoni ruoli non da matricola. Non è una carriera da canoni tradizionali, la sua. Non ci sono accademie teatrali o scuole di cinema, anni di gavetta o tentativi falliti. La storia di fatiche e conquiste qui manca. Come molti coetanei, Bedetti ha trovato nelle piattaforme online il primo – potenzialmente sconfinato – palcoscenico su cui sperimentare. Ha cominciato così, mi racconta, con TikTok, il social dei poco meno che ventenni. Qui, tra video brevi e interazioni, ha studiato il suo rapporto con la telecamera. Gli chiedo come è stato il passaggio dai social alla recitazione. E se quello strumento – il social network – ha qualche merito, perché sull’utilità concordiamo. «Sì. L’ho usato per iniziare a farmi vedere. E devo ammettere di aver ottenuto una certa visibilità. È una possibilità concreta per chiunque, quella». Controindicazioni? «A volte si cade nel tranello del dover apparire».


Ma l’idea di un suo linguaggio espressivo che prevedesse qualcosa di meglio del riscontro dei like e delle collaborazioni commerciali c’era. E prevedeva ricerche non così a corto raggio. La telecamera frontale va bene sì, ma è un meccanismo circolare. I social ti creano, nei social ci rimani incastrato, se non trovi il modo di sfuggirgli. Il passaggio al cinema – per quanto buoni possano essere i misuratori di popolarità online – non è mai scontato. Non tutti riescono a sostenere quel peso, quell’educazione a un personaggio, l’applicazione che serve. Alessandro Bedetti ha dimostrato una maturità rara, a uscire da quell’acqua: tempo pochi anni e TikTok era un ricordo annebbiato, già la critica parlava di recitazione istintiva e di buona tecnica.


Il suo primo grande ruolo (parliamo di enorme visibilità) arriva nel 2024 con Il Fabbricante di lacrime, l’adattamento del bestseller di Erin Doom. Nel film, distribuito da Netflix, interpreta Lionel, il personaggio enigmatico e scuro che gli dà accesso ad altri tipi di ribalte. E, prima ancora, c’era stata la regia di Luchetti nella serie Nudes, 2021. Oggi lo vediamo anche nell’ultimo film della saga di Bridget Jones. Un colpo di botteghino, quest’ultimo, che qualsiasi attore italiano di quell’età può solo inserire nella categoria “sogni”. Non si è lasciato sistemare in un’unica dimensione artistica, Bedetti. Non c’è una casella precisa, scivola tra parti diverse senza consentirti di fermare un’immagine coerente. Rom-com, serie storica, thriller psicologico e azione: questa capacità di adattarsi a ruoli eterogenei risponde incredibilmente presto più a esigenze di esplorazione che a tentativi di inizio di carriera artistica. E soprattutto: gli ha evitato di cadere nel cliché dell’idolo per adolescenti. Non si accontenta della superficie del personaggio, ma scava nelle contraddizioni, cercando di restituire una complessità psicologica che renda credibili le sue interpretazioni. E si avvicina a un’idea di recitazione più raffinata e meno spettacolarizzata.


Gli chiedo com’è stato lavorare in cast internazionali, e mi nomina immediatamente Emmerich, Those About to Die. «Ho avuto l’opportunità di lavorare con Hopkins». Lo interrompo solo per commentare: “Capisci che gavetta superba”? Lo sa, e sorride con molti denti. «Sì. E devo essere grato a quell’opportunità». Com’è andata? E gli chiedo di raccontarmi del set. «La produzione era stata attentissima. Ci avevano detto di rivolgerci a lui solo come Sir Anthony Hopkins. Quando poi è arrivato è venuto lui da noi a presentarsi e ci ha detto solo “Nice to meet you, I’m Tony.”» Segue una riflessione seria, non stereotipata sull’umiltà dei grandi. Che è una delle sue ambizioni. Gli chiedo se tra queste ambizioni ci sarebbe quella di essere ogni tanto un ventenne qualunque. Ci pensa, insiste sul fatto che si considera fortunato. Tranne che per un dettaglio. «Io sono stato obbligato a crescere di dieci anni. Di colpo. E questo lo sento. Faccio una vita diversa dai coetanei. Mi sembra, quando torno a Bologna, che la mia e quelle degli altri siano diventate vite scollate, troppo diverse».


Gli domando come si governa un tipo di giovinezza che è un investimento. E come funziona con il controllo dell’ego? «Sai cosa dico sempre? Che sono il mio peggiore hater. E questo è un modo per migliorare. E per tenere la testa bassa. Mi serve, pensarla così. Alla fine i più grandi insegnano: Hopkins è una delle persone più umili che ho conosciuto. Non si dà per scontato niente di quello che si è avuto. A volte devo ricordarmelo di più, di quanti ragazzi vorrebbero vivere la mia esperienza, e devo ringraziare le persone che credono in me». E quindi il talento che ruolo ha avuto?, insisto. «Il talento? Ho capito che vale un decimo. Il resto è studio». Parliamo dell’ultimo ruolo, quello di Hermes, lo schiavo. C’entra molto il corpo, con quel tipo di interpretazione. Hai parlato di Christian Bale come riferimento per questa interpretazione. Quando è il corpo che parla. Come in American Psycho. I primi minuti di quel film sono tutti fatti di corpo. E sono quelli che ti restituiscono il personaggio. Non esiste più quel tipo di recitazione o ci siamo troppo appiattiti: il sesso, il corpo, sono ovunque?


«Devi avere un’idea di te stesso che tiene. E rinunciare all’idea di un corpo perfetto. Che a volte si pensa possa contare più della capacità di recitazione. Ma il corpo resta uno strumento». Poche volte ho visto un attore giovane essere così capace di tenersi sia lontano sia in sintonia con questi tempi. Dà l’idea contraria a intercambiabilità, Alessandro Bedetti. È una carriera, la sua, di cui sono già prevedibilissimi i titoli, tra neanche troppo tempo: rigore artistico, versatilità, finalmente un talento italiano giovane che arriva fino in America.

Nell’intero servizio look Fendi. Photos by Adriano Russo, styling by Edoardo Caniglia, Grooming: Astor Hohxa @Blend, hair using Davines, makeup using Comfort Zone. Fashion contributor: Valentina Volpe. Styling assistant: Jacopo Ungarel