Scotty James il re dell’halfpipe verso Milano-Cortina 2026

Scotty James il re dell’halfpipe verso Milano-Cortina 2026

Dall’esordio giovanissimo ai titoli mondiali, fino al ruolo di figura chiave dello snowboard contemporaneo, Scotty James rappresenta una nuova idea di atleta: competitivo, consapevole, culturalmente trasversale

di Paolo Briscese

Prima di entrare in halfpipe, Scotty James si ferma sempre un istante. Respira, osserva, misura lo spazio. È un rituale silenzioso che racconta molto del suo modo di intendere lo snowboarding: non come esplosione incontrollata, ma come dialogo costante tra libertà e disciplina. Campione del mondo per la quarta volta a St. Moritz e tra i favoriti per un risultato storico a Giochi Olimpici di Milano‑Cortina 2026, l’ atleta australiano è oggi uno dei rider più completi della storia della disciplina, capace di trasformare la performance in linguaggio e consapevolezza.

Lo snowboard è spesso percepito come uno sport istintivo, libero, quasi anarchico. Eppure il tuo stile viene descritto come estremamente preciso, quasi “architettonico”. Come concili libertà e controllo?

«È proprio questo equilibrio a rendere lo snowboarding così appagante. Per me significa fondere creatività e precisione, spingere sempre più in là i limiti restando pienamente consapevole del corpo, dell’halfpipe, delle condizioni. Il controllo nasce dalla preparazione, dall’allenamento, dalla concentrazione. Ma non annulla il senso di libertà, anzi, è ciò che mi permette di entrare nel flow, di esplorare nuovi trick e di esprimermi con maggiore sicurezza».


Quanto conta oggi la mente rispetto all’aspetto fisico in competizione?

«Conta esattamente allo stesso modo. L’aspetto mentale è parte integrante dell’allenamento, tanto quanto quello fisico. Oltre a studiare ogni run, lavoro molto sulla preparazione mentale con esercizi di concentrazione, visualizzazione e controllo delle emozioni. L’obiettivo è arrivare in gara lucido, presente, totalmente allineato, proprio come quando preparo il corpo in palestra prima di una competizione».

Hai iniziato giovanissimo, con una pressione e aspettative enormi. C’è stato un momento in cui hai sentito il bisogno di ridefinirti oltre l’essere atleta?

«Crescere come atleta ha significato, inevitabilmente, crescere anche come persona. Diventare padre e avviare nuovi progetti imprenditoriali mi ha spinto fuori dalla comfort zone. Ma c’è stato un momento preciso nella prima età adulta in cui ho deciso di alzare davvero l’asticella. Ho scelto di impegnarmi al massimo, di elevare il mio livello atletico e mentale. Da lì in poi non ho mai smesso di cercare il miglioramento».

Il tuo quarto titolo mondiale a St. Moritz ti ha reso l’atleta più vincente nella storia dell’halfpipe. Cosa significa per te questo record?

«È un record che porto con grande gratitudine e umiltà». Rappresenta un percorso lungo, fatto di costanza, sacrifici e crescita. Sono orgoglioso del lavoro che mi ha portato fin qui, ma soprattutto è una spinta a continuare, a vedere fin dove posso arrivare, senza smettere di evolvermi».


Come differisce il valore di una medaglia olimpica rispetto a un titolo mondiale?

«Le Olimpiadi giocano in un campionato a parte». Il livello è altissimo, la pressione è diversa, più intensa. Vincere l’oro olimpico sarebbe un traguardo enorme, ed è su questo che sono concentrato guardando ai Giochi del 2026 in Italia. Le Olimpiadi arrivano solo ogni quattro anni e non rappresenti solo te stesso, ma un intero Paese. È una responsabilità enorme, ed è proprio questo a renderle un’esperienza unica».

Come è cambiato il tuo rapporto con la paura nello snowboarding?

«La paura c’è sempre, ogni volta che entro nell’halfpipe. Ma con il tempo ho imparato a gestirla e a trasformarla in energia. È uno sport pericoloso e questa consapevolezza non scompare mai del tutto. La differenza è che oggi mi fido della mia preparazione. Una volta in pista, l’adrenalina prende il sopravvento e la paura si trasforma in concentrazione».


Ti alleni tra Europa e Stati Uniti: quanto influisce l’ambiente sul tuo modo di lavorare?

«Influisce moltissimo. Le condizioni della neve cambiano radicalmente a seconda del clima, dell’altitudine, della geografia. Sono variabili che mettono alla prova, ma ai massimi livelli l’adattabilità è fondamentale. Devi saper cambiare approccio, affinare la tecnica e performare allo stesso livello, ovunque tu sia».

Negli ultimi anni hai parlato molto di routine, recupero e allenamento mentale. È una scelta legata alla longevità della carriera?

«Assolutamente sì. Allenarsi non significa solo passare ore in palestra o sulla neve, ma costruire una routine solida e sostenibile. Il recupero è essenziale, tanto per il corpo quanto per la mente. Passare tempo con la famiglia e gli amici mi aiuta a restare equilibrato. Arrivare a una stagione intensa con la mente libera fa una differenza enorme».

Lo snowboard dialoga sempre più con moda, design e lifestyle.  Ti senti parte di questa evoluzione culturale?

«Sì, ed è stato affascinante vederla prendere forma. Lo snowboarding è diventato un linguaggio culturale globale, che va ben oltre le piste. Essere il primo snowboard ambassador di K-Way è stato naturale: abbiamo lavorato su capi che uniscono funzionalità e design. Mi interessa esplorare queste connessioni e contribuire all’evoluzione culturale dello sport».


Come gestisci visibilità e social media?

«Venire da una piccola città australiana e ritrovarsi improvvisamente sotto i riflettori globali non è stato immediato. Sapere che persone in tutto il mondo osservano e commentano la tua vita è un cambiamento importante. Ma sono grato per questa piattaforma. I social mi permettono di raccontare chi sono, oltre l’atleta: viaggi, ironia, quotidianità. È un modo per costruire il mio racconto, alle mie condizioni».

Di recente hai lavorato a una capsule collection con K-Way, partecipando attivamente allo sviluppo dei capi. Quanto è importante per te essere coinvolto in prima persona, invece di limitarti a “mettere il tuo nome” su un progetto?

«È fondamentale. Non mi interessa “mettere il nome” su un progetto. Voglio che ciò di cui faccio parte sia autentico e di alta qualità. Per questo ho lavorato a stretto contatto con il team K-Way, condividendo visione e valori: resilienza, spirito d’avventura, performance. L’integrità e la cura del dettaglio vengono prima di tutto».

Prima di una run importante, cosa provi dentro l’halfpipe?

«È un mix di emozioni: adrenalina, tensione, paura, entusiasmo. Ma cerco sempre di restare presente. Mi ricordo che mi sono allenato per quel momento e che, comunque vada, ho la fortuna di fare ciò che amo. Il mio unico obiettivo è dare tutto».


Con il tuo livello di visibilità, senti una responsabilità verso le nuove generazioni?

«Lo snowboarding mi ha dato tantissimo e sento una forte responsabilità nel restituire qualcosa, sostenendo la nuova generazione mentre lo sport continua a evolversi. Uno degli aspetti più gratificanti è il lavoro con Thredbo, dove posso contribuire a creare opportunità concrete per i giovani rider e sostenere il futuro dello snowboard. Crescendo in Australia, non avevamo lo stesso accesso alle strutture di allenamento di altri Paesi, ed è proprio per questo che per me è così importante aiutare le nuove generazioni ad avere maggiori risorse e supporto».

Guardando al futuro, come immagini la prossima fase della tua carriera?

«Cerco di restare ancorato al presente. Con la stagione delle competizioni in corso, affronto ogni giornata di allenamento per quello che è, senza proiettarmi troppo in avanti. È facile guardare avanti e chiedersi cosa verrà dopo, ma ho imparato il valore dell’essere presenti, non solo nello snowboarding ma anche con la mia famiglia e i miei amici. So che questa nuova fase della mia carriera porterà sfide diverse, e sono pronto ad affrontarle, continuando a crescere, migliorare e adattarmi a tutto ciò che verrà».