Stefano Accorsi

Stefano Accorsi

Da Venezia al successo e ritorno. L’attore è alla Mostra del cinema, dove tutto è iniziato, con un film e nel talk di De’Longhi. «Sono un nevrotico del perfezionismo ma in scena libero una forza di disordine»

Photo by Getty Images
di Simona Santoni

A Venezia, dove tutto cominciò nel 1992, Stefano Accorsi torna con il film Amata di Elisa Amoruso, presentato nelle Giornate degli Autori. «Questo è un festival a cui sono molto legato. C’è un’atmosfera elettrizzante».
Quando lo incontriamo nella terrazza dell’Hotel Excelsior è impossibile non correre con il pensiero indietro nel tempo, a quel trentenne in fuga dalle responsabilità di padre de L’ultimo bacio (2001), quando in un lampo divenne uno degli attori più riconosciuti e apprezzati. Oggi Stefano ha quattro figli e una carriera intensa alle spalle a cui guarda, ripercorrendola, con profonda consapevolezza ma anche con l’entusiasmo di chi ancora si lascia sorprendere dal proprio mestiere. Ha appena gustato un caffè, dopo essere stato protagonista del talk d’autore di De’Longhi sulla ricerca della perfezione. «Il caffè per me è un momento di stacco importante», ci dice con quella voce così famigliare dal timbro caldo. «È una sorta di scusa per disconnettermi un attimo e ricominciare poi con nuova energia e freschezza». Pronto a una nuova storia in cui calarsi per regalarci emozioni.

Hai battezzato con il nome “coffee time” anche il tuo programma di allenamento.

«Sì, perché con il mio trainer mi alleno di mattina presto e prima, di rito, beviamo il caffè. Sono un mattiniero».

È incredibile: la tua carriera è iniziata proprio qui alla Mostra del cinema di Venezia con Fratelli e sorelle (1992) di Pupi Avati, il tuo debutto da attore.

«Era il mio primo film, al primo provino della mia vita, girato in America e… preso in concorso a Venezia! Tra l’altro anni dopo incontrai Gianni Amelio, che allora era in giuria, e mi rivelò che io e l’altro attore del film, Luciano Federico, abbiamo sfiorato la Coppa Volpi. Alla fine però optarono per un attore più maturo (Jack Lemmon per Americani, ndr) perché sembrava strano dare il premio a due attori così giovani esordienti. Me lo raccontò quando ci incrociammo a Roma, proprio nella stessa via in cui Avati ha l’ufficio: è stata la chiusura di un cerchio».

Foto di DanieleVenturelli/WireImage)
Stefano Accorsi all’Hotel Excelsior durante l’82° Festival Internazionale del Cinema di Venezia

E poi dieci anni dopo, nel 2002, è arrivata davvero la Coppa Volpi, per Un viaggio chiamato amore di Michele Placido. E tra i contendenti avevi un certo Tom Hanks…

«Mi dà emozione ancora oggi ripensarci. È stato un film che ho molto amato e che per fortuna è stato molto amato. Una storia d’amore bellissima, tra i poeti Dino Campana e Sibilla Aleramo, scomoda e difficile: Placido è molto bravo a raccontare emozioni non consuete. Mi ricordo che ero a Firenze, stavo tornando verso Roma dove abitavo all’epoca, stavo mangiando in una trattoria in cui non prendeva il cellulare e a un certo punto il mio agente ha chiamato al ristorante. Quando mi hanno detto “c’è una telefonata per lei” il cuore ha cominciato a battere».

Ora sei a Venezia con Amata, un film che parla di genitorialità desiderata e negata e di genitorialità non voluta. Al fianco di Miriam Leone, siete una coppia che ha provato in tanti modi ad avere un figlio. Tu che tipo di padre sei?

«Non lo so. Credo che i genitori si sentano sempre un po’ imperfetti e sbagliati. Per quanto uno si impegni è difficile rendersi conto di quello che veramente si dà ai figli, tante cose non sono nemmeno consapevoli. Umberto Eco diceva: “Diventiamo quello che è nostro padre negli scampoli di tempo”. E in parte è vero. Ogni tanto vorrei essere più calmo, avere più pazienza. Sicuramente sono molto legato alla famiglia, sono presente, questo me lo posso riconoscere, però ci sono tante cose su cui devo lavorare».

In Amata interpreti un pianista concertista. Che rapporto hai con la musica? Suoni il pianoforte anche nella vita?  

«No, però ascolto tanta musica, spaziando tra i generi. Mi piace molto il rock, quello classico. Adoro i brani in cui si sentono molto gli strumenti. Ultimamente mi sono avvicinato alla musica contemporanea grazie ai miei figli più piccoli. Quello che mi colpisce della musica è che in certi sport agonistici è vietata perché è equiparata al doping. È incredibile la potenza dell’arte, in tutte le sue forme, non bisogna mai sottovalutarla. Come nel caso di un film amato, che ogni tanto si guarda e si riguarda e diventa un compagno di vita che dà forza. Nutrirsi di cultura è importante per la nostra coscienza e crescita personale».

Stefano Accorsi
Photo by Alessandra Benedetti – Corbis/Corbis via Getty Images

A fine settembre a Firenze ci sarà Planetaria, festival di cui sei co-ideatore e direttore artistico: arte e scienza si incontrano per raccontare il presente e immaginare il futuro del pianeta. Da cosa nasce il tuo impegno ambientalista?

«Dall’amore per la natura. Vado sempre in montagna d’estate e vedere i ghiacciai che rimpiccioliscono, le alluvioni continue degli ultimi anni e cambiamenti climatici importanti non mi ha fatto più sentire al sicuro da nessuna parte. Mi sono reso conto che non mi bastava più prendere posizione in una dichiarazione o in un post sui social. Abbiamo pensato che questa compenetrazione di arte e scienza sia un bel motore per parlare di questi temi con empatia, in modo costruttivo ed educativo».

Nel talk d’autore di cui sei stato protagonista hai parlato di perfezione, che a volte nasce dall’imperfezione. Tu sei un perfezionista?

«Sì, sono un po’ nevrotico in fatto di perfezione. Però, per fortuna, quando vado in scena c’è una forza di disordine che lascio agire e che tiene conto di quanto ho imparato nello studio e nello stesso tempo lo scardina. A volte i ciak migliori sono proprio quelli dove non fai quello che ti aspettavi di fare. Alcuni registi che amo molto, Scorsese su tutti, fanno grandi sessioni d’improvvisazione con i loro attori. È un modo di lavorare che libera energie creative. Ci sono parole ed emozioni che escono in modo inaspettato sul set, da far vivere».

Dopo la popolarità esplosa con L’ultimo bacio di Gabriele Muccino hai fatto fatica a reggere il successo e sei fuggito a Parigi. Come vivi oggi la popolarità?

«Ho dovuto farci i conti. Allora cambiò improvvisamente il mio quotidiano: sai, il fatto di essere osservato, cercato, magari frainteso. Ed ebbi un contraccolpo. Avevo bisogno di tornare a guardare più che a essere guardato, e mi è servito. Ora, con la maturità e l’abitudine, ho imparato a conviverci. Quando vado in giro per i teatri o faccio incontri al cinema con il pubblico mi piace fermarmi con le persone. In fondo, se fai questo mestiere, essere riconosciuti fa piacere. Mi sono reso conto che ci sono io come persona e poi una sorta di immagine pubblica che comprende tutti i personaggi e le emozioni regalate. Ora sono felice di essere riconosciuto. Ho un carattere positivo rispetto all’incontro. E, soprattutto, mi ricordo perché volevo fare l’attore: per raccontare storie. Che ci sia qualcuno ad ascoltarle è bellissimo».

Stefano Accorsi
Photo by Venturelli/WireImage
Stefano Accorsi alla Mostra del cinema di Venezia per il film “L’arbitro”, 27 agosto 2013

Sei appena tornato a lavorare con Muccino nel film in cantiere Le cose non dette. Per te è un ritorno a casa?

«Sicuramente sì. È il quarto film che faccio con Gabriele (segue Baciami ancora e A casa tutti bene, ndr). Quando lavori con un regista varie volte è interessante essere testimone del suo percorso professionale, oltre che umano. Noti come ha affinato ancora di più la tecnica su alcuni aspetti, come ci sia stata una maturazione su altri. È molto affascinante e stimolante».

Dall’iconico spot degli anni ’90 “Du gust is megl che uan” a oggi, non ti sarebbe piaciuto recitare in un film hollywoodiano? C’è il problema dell’inglese?

«Esatto», sorride Stefano Accorsi. «Recitare nella propria lingua madre è sempre un’altra cosa. E ancor di più quando reciti nel tuo idioma, nella tua cadenza, nel tuo accento, perché si risvegliano ricordi profondi atavici, magari relativi a momenti vissuti quando eri bambino di cui non hai neanche memoria».

Nel 2013 hai girato il corto Io non ti conosco, poi nient’altro. Non ti attrae la regia?

«La regia mi interessa ma bisogna trovare la giusta storia da dirigere, appassionante, con cui convivere per almeno un anno e mezzo. È anche vero che chi non cerca non trova. Mi interessa anche creare storie, come è stato per le serie tv 1992, 1993 e 1994 e per Un Amore (per cui Accorsi ha recitato e ideato il soggetto, ndr) e per altri progetti in cantiere».

Nella tua carriera ultratrentennale hai fatto di tutto: film, serie tv, teatro, pubblicità, doppiaggio. Il mestiere dell’attore riesce ancora a stupirti?

«Per fortuna sì. A me, ad esempio, diverte molto anche rifare la stessa scena due, tre, quattro, cinque volte, cercando sempre nuove sfumature. Quando vengono i miei amici sul set, immaginandosi chissà cosa e vedendomi poi fare sempre la stessa cosa, trovano il mio mestiere noiosissimo. E invece no: non faccio sempre la stessa cosa. La ricerca è continua. Sono ancora innamoratissimo del mio lavoro».