

The Kolors. Here to stay
Ci sono gruppi che passano in fretta, a tutto volume e a fine stagione lasciano dietro di sé un vago senso di non-ritorno. E poi ci sono i The Kolors
Ci sono gruppi che attraversano le stagioni della musica come successi estivi di quelli che mangiano le classifiche: in fretta, a tutto volume, lasciando dietro di sé un vago senso di non-ritorno. E poi ci sono i The Kolors, che un tormentone lo fanno – eccome – e poi un altro, un altro e un altro ancora. È in uscita il 16 maggio il loro nuovo singolo. Stash, Alex e Dario non hanno provato a cercare somiglianze. E infatti un precedente è difficile da trovare: non patinati ma non indie, troppo eclettici per essere mainstream, troppo bravi (e nerd?) per l’etichetta di “personaggi televisivi”. Eppure il pubblico li ha capiti subito, anche quando la critica prendeva il suo tempo. E da allora, hanno giocato una partita diversa: più internazionale, più contaminata, più istintiva. Forse è proprio un altro campionato. Oggi, nel panorama pop italiano, hanno uno schema non imitabile. Perché riescono a passare dalla disco-funk al synth-pop anni 80 con la stessa naturalezza con cui hanno fatto della nostalgia una materia viva. È nostalgia che balla, se ne esistesse di quel tipo.
Hanno lanciato qualche indizio strategico sui social, facendo salire l’hype come si faceva con le anteprime su MTV. Da venerdì 16 maggio Pronto come va (Warner Music Italy), il nuovo singolo dei The Kolors, sarà su tutte le piattaforme digitali.
Un titolo che sembra l’inizio di un vocale su WhatsApp, ma dentro ci trovi la malinconia (senza polvere) delle vecchie cassette incise per qualcuno che ci piaceva troppo.
«Pronto come va è venuta fuori in un momento di nostalgia mentre eravamo in studio», racconta Stash. «Pensavamo alla bellezza di un gesto ormai dimenticato che fino a qualche anno fa rappresentava una vera e propria dedica: la compilation d’amore. Ricordavamo le sensazioni che si provavano in macchina mentre si ascoltavano da un cd, o ancor prima da musicassetta, le canzoni che cercavano in qualche modo di raccontare il sentimento per qualcuno…».
Un’immagine nitida: le luci della città che scorrono sul finestrino, il volume al massimo, la voce di chi amiamo fuori campo. Ed è questo immaginario a dettare anche il suono del brano, che si muove su coordinate retrò, ma con un groove contemporaneo, sintesi perfetta di un’estetica pop anni 2000 filtrata da un gusto – aggiunge Stash – parecchiopharrelliano.
Perché The Kolors?
Stash: Frequentavo l’Accademia di Brera, pittura, e il genio di Alex una sera se ne esce con “una band che si chiama The Kolors” non può non essere famosa (ridono tutti, poi Stash diventa serio). Alla fine l’ho declinata in maniera filosofica. Paragonandoci al pittore che usa colori primari – e ispirazioni da autori che possono essere James Brown, i Pink Floyd, Michael Jackson, e mixando, riusciamo a trovare sfumature. Prendere a piene mani dal passato e poi rivedere a modo nostro.
E vengono fuori gli anni 80.
Esatto. Quel tipo di sonoro.

Siete riusciti a riprendere anche la facilità. Le vostre canzoni prendono come prendevano quei tipi di hit lì.
Negli anni 80 c’era la ricerca dell’iconicità, ma basandosi su qualcosa di semplice.
E ora?
Ora le cose sono cambiate. Pensa all’AI. Senti spesso che ora, quando si scrive una melodia, una frase, si fa il test su Suno.
Cos’è?
Te lo dico da spettatore, e da spettatore anche abbastanza spaventato. Scrivono una melodia, degli accordi, dopodiché succede una cosa distruttiva, per me, per l’arte. C’è il sound alike.
Spiegami.
Ti faccio un esempio. Tu prendi il telefono e chiedi all’AI “fammi un pezzo sul divano giallo ispirato a un pezzo di Madonna”. L’AI ti prepara una demo che “suona tipo” quello. E se ci pensi è terribile. È qualcosa che sentiamo succede spesso. Qualcosa che non è escluso diventi prassi. Ed è per questo che sentiamo che il futuro organico è il palco. Perché sul palco non puoi chiedere all’AI di cantare. È il dark side, ormai, l’AI, un po’ dappertutto.

Già. Torniamo al sound anni 80. Una vostra caratteristica è aver preso, insieme agli echi degli anni 80, anche quello stesso tipo di fama. Pensiamo a Italo disco, che diventa una hit, sfugge a qualsiasi previsione discografica e diventa…
Sì, è stato un passaggio incredibile. Platino in Austria, in Lituania.
E voi siete riusciti a non farvi stritolare dal meccanismo. Come?
Questo è figlio della tendenza a considerare il risultato come una conseguenza. Ti spiego. Io all’inizio dei social non ho vissuto appieno il boom IG e TikTok. Se chiedi qual è l’obiettivo, ora tendenzialmente è il milione di follower. È quello che si cerca. Come un potere diverso e autonomo, come se poi quel milione di follower rendesse stabile qualcosa. E invece vuol dire solo diventare schiavi delle tendenze. Sei in mare aperto. E senti di essere lì per caso, non perché è dovuto.

Che stanno facendo i social?
È ancora da capire. Sicuramente la percezione che si ha è che il pop soffre. Soffre quel tipo di percezione glossy.
Il vostro è un pop che rappresenta anche un’antitendenza felice. Ora il mainstream – si può dire – è in chiave costantemente depressiva.
Sì, adesso viviamo però in quel tipo di scia. E te lo dice una persona che è felice, nelle canzoni. Una persona, che insieme agli altri, lavora per quella percezione, dalla prima nota di una canzone.
A guardarli oggi, sembrano sapere esattamente dove stanno andando. Stash – con quella voce che suona come un synth caldo e graffiato – è il frontman che non cerca mai il centro della scena, ma finisce sempre lì. Attorno a lui, una band che ha imparato a limare i suoni, a costruire live esplosivi. Penso a Italo Disco. Sotto la superficie smaltata di quel ritornello a presa rapida c’era già tutto: l’omaggio al pop italiano degli anni d’oro, il gusto elettronico da collezionisti, il desiderio un po’ malinconico di ricordare, ma sapendolo fare dal futuro.
Grooming: Kiril Vasilev, Letizia Morlè @Green Apple. Fashion contributor: Valentina Volpe
Styling assistant: Ruben Blattner