Costume Art: il tema del Met Gala 2026 spiegato bene
Il primo Met Gala senza Anna Wintour inaugura una nuova era: con “Costume Art”, il Met porta al centro il corpo e trasforma la moda in chiave di lettura della storia dell’arte
Per la prima volta dopo quasi quattro decenni, il Met Gala si prepara a una notte senza Anna Wintour al comando. Nonostante la direttrice emerita rimanga simbolicamente nel board, la macchina operativa dell’evento passa sotto la nuova editor-in-chief di Vogue US, Chloé Malle. Il tema del prossimo gala sarà “Costume Art”, lo stesso titolo della mostra primaverile del Costume Institute che aprirà al pubblico il 10 maggio 2026 (fino al 10 gennaio 2027) e che verrà lanciata, come da liturgia, la sera del 4 maggio, primo lunedì di maggio.
La mostra “Costume Art” inaugurerà le nuove Condé M. Nast Galleries, dodicimila piedi quadrati di spazi permanenti affacciati direttamente sulla Great Hall del Met. In altre parole, la moda esce dal seminterrato ed entra nel salotto buono del museo.

Ma cosa significa, in concreto, “Costume Art”?
La risposta è più semplice, più radicale e più interessante di quanto sembri. Significa che il Met vuole mettere al centro non l’abito, ma il corpo vestito, cioè il modo in cui il corpo è rappresentato, interpretato, raccontato attraverso i vestiti. La mostra non sarà una classica parata di pezzi iconici del Costume Institute. Sarà un viaggio attraverso secoli di pittura, scultura, fotografia e arte decorativa per provare a dimostrare che ogni epoca, ogni cultura, ogni immaginario ha definito se stessa attraverso un corpo: idealizzato, nudo, vestito, vulnerabile, incinta, vecchio, forte, fragile. E che la moda è il linguaggio che dà forma a quel corpo.
L’intuizione di Andrew Bolton, direttore del Costume Institute, è la seguente: quando guardiamo un’opera d’arte, anche quando il soggetto è nudo, stiamo comunque osservando un corpo già codificato. Nulla è neutro. Ogni centimetro di pelle rappresentata è una costruzione culturale. E se questo è vero, allora la moda non è un accessorio: è il sistema di segni che ha modellato, protetto, nascosto o esibito quei corpi nel corso della storia. Con “Costume Art” il Met vuole mostrare che la moda non è un elemento decorativo, ma il vero collante tra tutte le arti visive. È attraverso i vestiti – o la loro assenza – che l’Occidente ha definito la bellezza, il potere, la femminilità, la mascolinità, la fragilità, la virilità, la purezza, la seduzione.

La mostra lo dimostra in modo molto concreto. Circa 200 capi e opere d’arte da 16 dipartimenti del Met, costruisce un percorso per “tipologie di corpo”. Uno degli accostamenti già resi pubblici è un colpo di teatro curatoriale: “Adam and Eve” (1504) di Albrecht Dürer, posizionato al fianco delle bodysuit iper-anatomiche di Walter Van Beirendonck, che ridisegnano il corpo come fumetto muscolare. Una mappa del Rinascimento a confronto con un corpo post-umano: stessa ossessione, diversa ideologia. Accanto, i plissé liquidi di Fortuny, le architetture couture di Charles James, la complessità concettuale di Comme des Garçons dialogano con quadri, sculture, reliquiari e stampe.
Tutto gira attorno a un’unica domanda: come raccontiamo il nostro corpo? E chi decide quale corpo è “bello”, “degno”, “artistico”? Ed è proprio qui che il tema diventa semplice: “Costume Art” significa guardare la moda non come un oggetto, ma come un’idea di corpo. Non come un abito, ma come un modo di rappresentarci. Non come ciò che indossiamo, ma come ciò che vogliamo essere, o ciò che la cultura ci permette di essere. Vuol dire che la mostra parla di noi, della nostra immagine, dei nostri limiti, delle nostre aspirazioni. E vuole farlo includendo quei corpi che finora sono stati esclusi o marginalizzati: il corpo nero, il corpo che invecchia, il corpo incinta, il corpo non conforme, il corpo vulnerabile.

In altre parole: non più “questo vestito è un’opera d’arte”, ma “questo corpo – e ciò che indossa – è già un dispositivo artistico”. Un modo elegante, e finalmente semplice, per dire che l’arte non è mai stata solo nei musei. È sempre stata addosso a noi.
Cosa aspettarci dai look degli invitati
Se negli ultimi anni il Met Gala ha spesso oscillato tra il letterale e il prevedibile, “Costume Art” potrebbe dare agli stilisti un’occasione rara: smettere di inseguire l’abito “memorabile” e misurarsi con il corpo come concetto. Non è un tema che si risolve con una cascata di sheer o con l’ennesimo naked dress. Al contrario, chiede agli invitati di prendere posizione su come vogliono essere guardati. E, soprattutto, di che tipo di corpo intendono mettere in scena.

C’è chi sicuramente recupererà la grammatica classica – drappeggi, colonne, panneggi marmorei – moltiplicando le citazioni alle statue del Met. Ma i look più interessanti saranno altri: quelli che useranno il corpo come materiale narrativo. Potremmo vedere silhouette che giocano sulla vulnerabilità invece che sulla forza. Tagli che evidenziano imperfezioni anziché cancellarle, drappeggi che non scolpiscono la figura ma la “liberano” dal diktat museale della perfezione. È possibile che alcune celebrity scelgano la via dell’ironia anatomica (muscolature disegnate, trasparenze che sembrano radiografie, abiti che imitano l’interno più che l’esterno). Mentre altri potrebbero usare il red carpet per raccontare la gravidanza, l’età, il cambiamento del corpo come atti di presenza politica prima ancora che estetica.
Anche per gli uomini si apre un territorio nuovo. Invece del solito smoking “reinterpretato”, potrebbe arrivare un’idea di mascolinità più libera, più espressiva, meno rigida; silhouette morbide, riferimenti al balletto, costruzioni scultoree, body-modification sartoriali. Il corpo maschile, di solito meno interrogato sul tappeto rosso, potrebbe diventare uno dei protagonisti. Il Met Gala 2026 potrebbe essere la prima edizione in cui non è l’abito a rubare la scena, ma il corpo che lo veste. Staremo a vedere.
