Miguel Adrover è molto più del designer che ha detto no a Rosalía
Il suo rifiuto di vestire la popstar non è un colpo di teatro, ma l’ennesimo atto di coerenza di un creativo che ha sempre intrecciato moda e politica. Premiato a New York, poi quasi bandito dalle passerelle, Adrover è un rivoluzionario che oggi torna al centro del dibattito non per nostalgia, ma perché il suo linguaggio – fatto di upcycling, critica sociale e visioni radicali – è più attuale che mai
C’è un nome dietro il rifiuto che ha infiammato i feed: Miguel Adrover. Mallorquino, autodidatta, enfant terrible dei primi Duemila a New York, ha respinto la richiesta del team di Rosalía di creare un look “custom”. Motivo? Per Adrover, chi ha un megafono pop ha anche una responsabilità: “il silenzio è complicità” rispetto a Gaza. Il caso è esploso dopo un suo post/DM reso pubblico, poi ripreso da testate spagnole e internazionali; la cantante ha risposto con un messaggio pro-pace e contro le atrocità sui civili, senza schieramenti espliciti.
Ma questi due orizzonti etici non coincidono. Il “no” non è un capriccio, ma coerenza per Adrover. Che dichiara di non voler prestare creatività a star che non usano la propria piattaforma per un posizionamento politico netto.

Miguel Adrover: un prodigio dimenticato
Dietro lo “scandalo” c’è però una biografia che la moda conosce benissimo. Adrover arriva a Manhattan negli anni ’90, apre la boutique Horn nell’East Village, quindi debutta in passerella nel 1999. Nel 2000 vince il CFDA/Perry Ellis Award come miglior nuovo talento – uno dei massimi riconoscimenti americani – diventando il beniamino dei critici. Il suo lessico è chiaro: upcycling radicale, appropriazioni dissacranti, prendeva le stoffe e i capi di altri brand e li riadattava (la gonna fatta di borse Louis Vuitton, il trench Burberry rigirato e indossato al contrario), sguardo politico prima che diventasse parola-chiave. Icone, non solo idee: l’abito “I ❤ NY”, una T-shirt turistica trasformata in statement, è oggi nella collezione del Costume Institute del Met. Anche il celebre trench manipolato è conservato nelle loro raccolte. Segno che quella lingua, allora scandalosa, è ormai storia del costume.
Poi la caduta. Il 9 settembre 2001 Adrover presenta “Utopia”, una sfilata che mescola rimandi mediorientali e un’America già nervosa: due giorni dopo c’è l’11 settembre, cambiano le sensibilità, i finanziatori si sfilano, e il suo marchio entra in una spirale di difficoltà. Non è un “bando” formale, ma un’ostilità di sistema alla sua moda forse considerata troppo politica e radicale: il designer scompare dai calendari, la stampa lo racconta come un genio controtempo, più avanti dei tempi e fuori mercato. Tornerà solo episodicamente, poi rientrerà in pianta stabile a Maiorca.

Eppure il suo “animo rivoluzionario” non è mai evaporato. Sostenibilità e riuso come estetica e politica (quando la moda non li aveva ancora istituzionalizzati), una certa allergia alle dinamiche corporate, vicinanza alle popolazioni più in difficoltà e una voce pubblica spesso in contropelo. Nel 2018 la Spagna gli assegna il Premio Nazionale di Disegno di Moda “per l’audacia, il coraggio e l’impegno sociale” del suo lavoro: un riconoscimento che blinda il suo ruolo nel canone.
La moda “lo ha davvero bandito”?
Parola forte, “bandito”. Tecnicamente non esiste un bando ufficiale. Esiste un’innegabile gap tra estetica, politica e business: cause legali per appropriazioni troppo audaci da parte di colossi del settore, il crollo dopo l’11/9, investitori evaporati, una linea spigolosa da far quadrare in showroom. Risultato: Adrover è rimasto di fatto ai margini, lontano dai calendari, mentre la moda mainstream metabolizzava e, soprattutto, monetizzava, molte delle sue stesse intuizioni.

Il presente? Vive e lavora a Calonge, in solitudine operosa tra cani, manichini e archivi. Continua a creare in con una critica cruda, spietata e dissacrante, basta dare uno sguardo al suo profilo Instagram. E torna oggi nel dibattito pop grazie a The Designer is Dead, documentario di Little Spain (la factory di C. Tangana) presentato all’Atlàntida Mallorca Film Fest: il film ricostruisce l’ascesa, la scomparsa e il mito di Adrover, spiegando perché molte delle sue intuizioni siano diventate mainstream quando lui aveva già pagato il conto.
Oggi ci interessa anche perché la sua posizione su Gaza riaccende un tema spinoso: la responsabilità politica dei grandi artisti pop e di chi li veste. E perché il suo archivio – abiti costruiti a partire dall’esistente, loghi rovesciati, uniformi ribaltate – parla la lingua del 2025: sostenibilità reale, anti-elitismo, moda come critica sociale. Il Met conserva i pezzi, i musei e i docufilm li storicizzano, gli archivi digitali li venerano. Il sistema che l’ha respinto, oggi gli dà (in parte) ragione.

Miguel Adrover resta un caso di scuola: quando la moda è troppo avanti, il sistema la respinge; quando il mondo ci arriva, gli autori sono già altrove. Il suo “no” a Rosalía è l’ennesimo atto di coerenza di un designer che ha sempre scelto la frizione alla diplomazia. Se oggi gli archivi e i musei lo celebrano, forse non è solo nostalgia: è che quella radicalità, estetica e politica, è diventata, finalmente, contemporanea. O semplicemente, senza troppi romanticismi, fruttuosa.