Tokyo, Seoul e Shanghai sono le nuove capitali della moda?
Forse è presto per dirlo, ma qualcosa sta già cambiando sottopelle: le tendenze non germogliano più in Occidente. La corrente creativa più potente arriva da Oriente, con Cina, Corea e Giappone a delineare il nuovo orizzonte estetico
Per decenni l’Occidente ha dato per scontato una cosa: che il baricentro del gusto fosse fisso, immobile, geolocalizzato tra Rue Cambon, Soho e Via Monte Napoleone. Tokyo era un fetish intellettuale; Seoul un sinonimo di skincare; Shanghai un mercato. Oggi quell’asse si è incrinato. Mentre Milano, New York e Parigi perfezionano la liturgia del lusso, sono Cina, Giappone e Corea a dettare le tendenze che facciamo nostre senza neanche rendercene conto. E per la prima volta nella modernità visiva è l’Europa a inseguire l’Asia, non il contrario.
Persino Kim Jones, uno dei designer più influenti dell’ultimo decennio, ha lasciato Dior Men e ha scelto la Cina come nuovo centro di gravità. Decidendo che il prossimo futuro si immagina, si produce e si lancia da Est. Non da Parigi. E se le capitali della moda sono forse ancora in Occidente, le capitali dell’immaginario no. I riferimenti estetici di una generazione – come ci si trucca, come cade un blazer, quanto si gioca con il genere – nascono a Est e arrivano qui già pronti, già virali, già desiderabili. Ma la questione va be oltre la moda, questo slittamento d’asse è tangibile in tante altre cose. Basti pensare che oggi tutti sognano un viaggio Giappone, quando per generazioni il sogno proibito è stato l’America.

Seoul: K-pop, K-beauty, K-everything
La Corea ha smesso da tempo di esportare solo skincare. Sta esportando cultura. La sua forza non sta nelle sfilate (che pure stanno crescendo) ma nella capacità chirurgica di generare immaginario. K-pop, K-drama, K-beauty: tre industrie che operano come una infrastruttura culturale, un sistema nervoso che produce desiderio con la stessa precisione con cui produce intrattenimento.
La pelle “glass”, la morbidezza genderless degli idol, le acconciature minimal-kawaii, la sartoria soft che diventa quotidianità: nel giro di pochi anni questi codici hanno colonizzato la comunicazione occidentale. Non come citazioni, ma come standard contemporaneo. Il punto non è che i brand europei si ispirino alla Corea. È che la Corea definisce oggi ciò che appare contemporaneo. E le maison, tra consapevolezza, dipendenza e puro realismo, si adeguano. A Milano e Parigi, le first row più fotografate non sono più quelle hollywoodiane: sono gli idol coreani, che generano fino a oltre metà dell’engagement di uno show. I loro outfit da front row diventano trend globali prima ancora che i direttori creativi abbiano definito la stagione successiva.

Tokyo: la città che ha inventato ciò che oggi chiamiamo tendenza
Prima di Seoul, c’era Tokyo. La città che per prima ha trasformato la moda in sistema culturale complesso, capace di produrre sottoculture come fossero movimenti artistici: Lolita, Visual Kei, Gyaru, Decora. A Harajuku la moda non era tendenza (concezione ormai fin troppo familiare). Era quello che dovrebbe sempre essere: espressione, linguaggio, identità, resistenza, gioco.
Oggi gli archivi di quelle subculture sono una miniera senza fondo che alimenta TikTok, Pinterest, Instagram: un mondo di immagini in continuo ricircolo, pronte a essere remixate dalla Gen Z occidentale che magari non ha mai messo piede in Giappone, ma indossa silhouette nate lì. Se oggi ci sembra normale vedere un ventenne mixare tailoring, skatewear e romanticismo queer, è perché Tokyo ha fatto decenni di beta-testing culturale. Tokyo ha inventato il futuro trent’anni fa. Semplicemente, eravamo noi a non essere pronti a chiamarlo tale.

Shanghai: il centro del potere
E poi c’è Shanghai: la città che non detta tendenza in maniera canonica; ma che allo stesso tempo può far tremare un intero sistema. Ricordiamoci infatti che la Cina è un mercato gigantesco e importantissimo per il lusso. Ma la sensibilità estetica dei giovani cinesi sta cambiando, e potrebbe cambiare le regole del gioco, con il portafoglio e con l’immaginario.
Da qui arriva quello che forse è il dato più radicale dell’ultimo decennio: la nuova generazione cinese non desidera più automaticamente il lusso occidentale. I consumatori cinesi – soprattutto under 35 – stanno preferendo brand locali non per prezzo, ma per identificazione estetica.
È il tramonto del logo occidentale come status? Non saltiamo alle conclusioni. Però si tratta di un bel campanello dall’allarme per i giganti della fashion industry. Il baricentro si sta spostando sulla ricerca di un’estetica propria, radicata, che non guarda a Parigi come al faro del gusto, ma come a un riferimento fra tanti. Shanghai, allora, non è più lo specchio dell’Occidente: è la lente attraverso cui l’Occidente deve guardarsi per capire se sta ancora parlando a qualcuno. È la prova che, se il sogno non parla la lingua del consumatore, il consumatore cambia sogno.

Il nuovo ordine non ha una capitale
Le capitali della moda si sono davvero spostate a Oriente? La risposta più onesta è un ibrido: no, ma il centro estetico sì. O, più brutalmente: dopo decenni in cui l’Occidente ha assorbito simboli da tutto il mondo, è arrivato il momento in cui è l’Occidente a essere assorbito.
La verità è che siamo entrati in un decennio policentrico, dove le capitali non sono più quattro, non sono più fisse, non sono più gerarchiche. Il nuovo ordine è questo: il sogno nasce dove l’immaginario è fertile. E oggi, quasi sempre, quella fertilità pare trovarsi a Oriente.