Oggetti che raccontano storie: Dante Ferretti, costruttore di mondi che vive a ritroso, disegna poesie, vince oscar, carezza babbuini.
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I gessetti di vari colori usati per realizzare i bozzetti a mano, dando vita a dettagli e sfumature che un rendering al computer non potrà mai eguagliare.
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La sagoma del sole che accoglie i visitatori all’ingresso dell’attrezzeria di Ferretti a Cinecittà: è rimasto orfano dei raggi, ma è vivo, pensoso, tiene sempre gli occhi aperti. «Compariva in una scena in un teatro, facendosi largo tra le nuvole», racconta lo scenografo. «Aveva un diametro di tre metri e mezzo. Gli sono affezionato: finché brilla vuol dire che c’è luce».
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Una vecchia radio con cassetta è il sottofondo onnipresente nello studio di Ferretti, che dice: «Amo Elvis Presley, Paul Anka, i Platters e gli Everly Brothers. Di recente ho comprato una raccolta, “Classic love songs”. Classiche lo sono diventate oggi, ieri erano delle hit. Il tempo passa, ma io non lo sento. Sono come Benjamin Button, ogni anno ne ho uno in meno».
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Alcuni dei carboncini usati da Ferretti per accentuare le parti più scure dei bozzetti.
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Una foto della compagna di vita e di lavoro di Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo. Scattata quando ancora non si conoscevano, è una delle immagini a cui lo scenografo è più affezionato.
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Una caricatura di Dante Ferretti, figura minuta accanto alla possenza di Fellini: il regista con un bollitore al posto della testa, da cui escono una nuvola, pioggia, fulmini. È stata realizzata dal fumettista e scultore Gianni Gianese nel 1977. Sul foglio si legge: «Tu sei il mio architetto, non avrò altro architetto all’infuori di te!».
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Per cercare l’ispirazione Ferretti sfoglia tantissimi libri, come quello dedicato ai clown di Fellini, in cui un post-it è incollato sul paginone di un circo antico.
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Screen Deco, altro testo che Ferretti consulta per farsi venire delle idee. Raccoglie sequenze di immagini da film degli Anni Trenta, tra cui grandi classici, come Cleopatra o Le avventure di Marco Polo
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La lente d’ingrandimento aiuta a cogliere meglio i dettagli delle immagini e delle scenografie dei libri. «Ma poi me ne dimentico», assicura Ferretti. «Non mi piace copiare, preferisco reinventare. A costo di fare degli errori. Anzi, sbagliare è necessario, perché se tutto è troppo perfetto sullo schermo si vede che è finto».
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Un paio di vecchi occhiali dimenticati su una mensola. «Non li porto da sempre e ho aspettato un po’ prima di metterli. Avevo i capelli, a un certo punto mi hanno salutato. Allora, perché non me ne accorgessi, mi è calata la vista», racconta Ferretti, prima di spiegare perché li conserva ancora: «Non butto via niente, non vede che casino che c’è. Tengo tanta roba che in teoria non mi servirebbe perché ci sono affezionato».
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Il fissativo, come indicato dal nome stesso, serve a fissare il gesso sul cartoncino. Congela l’idea provvisoria nella sua forma finale.
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Con il taglierino Ferretti crea le tessere che andranno a comporre un puzzle, il bozzetto finito. Che, spesso, è una somma di più disegni. «Lavoro molto con il taglierino», racconta lo scenografo, «di recente mi sono ferito a un dito. Forse è un’operazione che dovrei lasciare a qualcun altro».
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Il cartoncino è la tela nuda, il punto di partenza di qualsiasi bozzetto. Generalmente non è bianco ma di colore scuro, così di base ha già un fondo su cui lavorare.
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Uno dei tanti premi assegnati a Dante Ferretti nel corso della sua carriera. Nello specifico, un riconoscimento da parte di Cinecittà. «A un certo punto ci si abitua anche, me ne hanno dati molti forse perché non sanno a chi darli», scherza lo scenografo.
Dante Ferretti. Foto Mondadori Portfolio.
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La scatola delle cose di Dante Ferretti è in una parentesi di Roma che sembra ovunque ma non lì, un altrove con l’insegna di Cinecittà: contiene cumuli di ricordi e tutti i ferri del mestiere. Sono enormi e minimi, dal set di Gangs of New York dove ora i piccioni fanno il nido indisturbati ad arcobaleni di gessetti che sporcano le mani di polvere di colore.
La rotta è semplice: sempre dritto lungo un viale finché non s’interrompe, qualche passo verso sinistra ed ecco l’attrezzeria diciassette. Numero meschino che qui ha perso vigore anzi ha smentito la sua fama, portando allo scenografo italiano più apprezzato al mondo tre Oscar, assieme a una valanga di nomination, nastri e trofei che una parete intera e due scaffali solo in parte riescono a contenere. Tutt’intorno, oggetti che raccontano storie, mestiere, passioni.