Oggetti che raccontano storie: Simone Moro, una vita a 8.000 Metri. Dove conta ciò che porti, ma anche ciò che scegli di lasciare a casa.
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Simone Moro, 45 anni e 47 spedizioni. È stato quattro volte sull’Everest (qui porta al collo il monile nepalese che considera il suo portafortuna) ed è l’unico ad aver scalato per la prima volta, in completa invernale (cioè partendo e arrivando in vetta in inverno), tre diversi 8 mila metri.
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La tuta da alta quota di Simone Moro, che lui descrive come «un sacco a pelo con braccia e gambe». Elemento fondamentale per portare a termine qualsiasi spedizione, è una sintesi di tecniche antiche e tecnologia moderna: l’imbottitura con piume d’oca la rende leggera e allo stesso tempo molto calda; il tessuto sintetico Gore-Tex garantisce impermeabilità e resistenza anche in condizioni estreme. «E sì», spiega Moro, «può sembrare parecchio ingombrante. Ma quando ti trovi a 50 gradi sottozero, ne benedici ogni centimetro».
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L’elicottero AS350 B3, acquistato da Moro pochi mesi fa. Dopo l’arrampicata e l’alpinismo, il pilotaggio è la sua terza grande passione. E presto, anche una sorta di nuova professione: sta per lanciare un suo progetto di elisoccorso in Nepal per aiutare turisti, trekker e popolazione locale. «Vado in quelle zone da oltre vent’anni», racconta, «e voglio costruire qualcosa di utile. Conosco il territorio a memoria, penso di poter salvare altre vite come già stiamo facendo con elicotteri del posto».
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Il casco è spesso un salvavita, come nel il 1992 quando da una roccia si stacca un sasso e Moro evita il peggio solo perché lo aveva in testa. «A dire il vero i sassi erano due. Il secondo, il più piccolo, mi ha tagliato il sopracciglio. L’ho vissuto come un avvertimento, un monito a fare sempre attenzione».
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Questo chiodo a espansione è uno dei pochi oggetti del suo passato che l’alpinista non ha regalato o buttato via. Lo ha tirato via da una cava di pietra a Nembro, a dodici chilometri da casa. «Lo conservo ancora», racconta, «così lo stringo in una mano e ritorno a quello che è stato il mio primo Everest».
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Tra i libri ci sono quelli che Moro ha scritto, per fare un punto con il passato; quelli che ha letto e hanno acceso il desiderio di partire. «Un nome? Messner, naturalmente. Il Pelé dell’alpinismo. Un modello per me: da seguire, mai da clonare».
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Moro è molto affezionato alle sue diapositive, su cui conserva le foto delle sue avventure dal 1992 al 2003, quando ancora l’analogico batteva il digitale.
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La tenda è una casa stretta, piccola, «ma comodissima», assicura Moro. «Ci dormo davvero bene». Pesa meno di due chili, però è solida come quattro mura, resiste a raffiche ululanti di vento che accelerano fino a 100 all’ora. «Ci vogliono trenta secondi per montarla. E ho imparato dei trucchetti per farla stare ferma».
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Moro usa le scarpette da arrampicata per allenarsi nella palestra che ha sotto casa. Va su e giù, verso destra e sinistra, anche per qualche ora di fila. Accordando muscoli e mente, mescolando esperienza e automatismi, a mani nude o con l’aiuto delle piccozze.
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Il tris tecnologico da portare ad alta quota: un telefono satellitare, un Gps portatile e da polso. Indispensabili per ritrovare la strada, «come quando mi persi in una tormenta sul Gasherbrum II e uno di questi aggeggi mi permise di tornare indietro. Se vuoi sopravvivere puoi dimenticarti le mutande, ma non il Gps». Utili per far salire in cima, in pochi minuti, anche il resto del mondo: «Era il 24 maggio del 2002, la mia seconda volta sull’Everest. Grazie al telefono ho potuto raccontare in diretta radiofonica, con la voce ancora piena d’affanno, le emozioni di lassù».
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Lo scarpone è stato creato sulla base dei suggerimenti dell’alpinista e si chiama «Olympus Mons», come il vulcano più grande del sistema solare: un colosso che domina Marte ed è alto oltre 25 mila metri.
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Il moschettone, parte fondamentale dell’imbracatura, serve a tenere il corpo dell’alpinista ancorato alla corda. Durante una spedizione Moro stava percorrendo un ghiacciaio in Pakistan, è scivolato ed è caduto in un crepaccio, ma se l’è cavata rimanendo appeso nel vuoto proprio grazie all’imbracatura
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Lo zaino è un onnipresente compagno di viaggio, da riempire con intelligenza e qualche rinuncia: «Perché avere un condominio dietro la schiena fa uno strano effetto vela».
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La corda, oltre a essere un elemento fondamentale per la sicurezza ad alta quota, è ciò che lega l’alpinista a chi lo accompagna durante la spedizione. «La corda», commenta Moro, «è ciò che crea la cordata».
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Le piccozze, i ferri del mestiere per eccellenza. Conoscerle significa salvarsi la vita: «Una volta», racconta Moro, «ero da solo su una cresta per girare alcuni filmati. La neve a un tratto si è fatta inconsistente, sembrava zucchero a velo. Fortuna che avevo portato con me una piccozza polivalente in grado di incastrarsi nella roccia, altrimenti avrei fatto una pessima fine».
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La borsa viaggia a dorso di mulo o di yak e non partecipa alla scalata, rimane al campo base. «Penso sia come il fagotto per un vagabondo. Dentro è piena di cose che mi riportano odori lontani, ma familiari. Come i tortellini, che preparo sciogliendo la neve e buttandoci dentro il dado».
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Il rampone ha un doppio uso. Di giorno è un artiglio fissato allo scarpone per far presa sul ghiaccio. Di notte, incrociato con un altro rampone e sotterrato nella neve, crea un ancoraggio fortissimo per la tenda.
L’uomo, Simone Moro. Le sue cose. Non tutte, forse le più significative. Quelle che lo rappresentano, lo spiegano, lo raccontano. Compagne di percorsi, traguardi, salite lunghissime e liberatorie discese. Viaggi. Che nel suo caso si chiamano spedizioni. Ne ha portate a termine decine arrivando per 11 volte in cima a montagne da 8 mila metri. D’inverno, quando il freddo è più arrabbiato e l’improbabile diventa impossibile. «Quasi impossibile. Quasi è una parola magica, l’unica chiave per credere che ogni limite sia superabile», spiega questo bergamasco cresciuto «a ridosso di una zona sfigata delle Alpi». Un cittadino che all’asfalto ha preferito una direzione scivolosa e verticale. Cose. Che non fanno dimenticare ciò che si è lasciato a casa. «Cose ordinarie, piccole, a cui riesco a dare un valore enorme perché momentaneamente me ne spoglio. Se in questo momento ho sete, mi alzo, faccio due metri, riempio un bicchiere e mi passa. Se ti viene sete in alta quota, e te ne viene tanta, per ogni litro devi sbancare un metro quadro di neve. E ottieni acqua distillata, come quella del ferro da stiro o della batteria del motore. Se è quello che bevi per due mesi, al ritorno non dai per scontata nemmeno una bottiglietta di plastica. Vai su, fino a ottomila metri, per capire quanto sia importante stare con i piedi per terra».