Effetto Wow! Dalla moda alle serie tv – perché ci piacciono le emozioni estreme

Effetto Wow! Dalla moda alle serie tv – perché ci piacciono le emozioni estreme

di Ester Viola

Dopo il successo nella moda l’effetto wow! dilaga anche nelle serie tv per catturare l’attenzione di un pubblico (noi) sempre più distratto. Ogni trucco è lecito. Meglio se esagerato.

Come siamo finiti qui? Dov’è che abbiamo sbagliato? Tutto inizia con l’effetto shock o, per usare un termine a sfumatura carina, l’effetto wow!. Ma di cosa si tratta, precisamente? Gli esempi, in questo caso, spiegano meglio delle teorie: quando il genio di Alessandro Michele decise di fare di Gucci una festa mobile, uno spettacolo di teatro e visioni, nessuno era preparato. C’era stato McQueen, certamente, e tutti si erano trovati d’accordo: quella era arte, era epica, era un’eccezione e qualcosa che non avremmo più rivisto identica. Poi l’abbiamo rivista, sì, con Gucci, e non si trattava solo di abiti, ma di dichiarazioni d’intenti: animali imbalsamati, teste di manichino, coppie di gemelli che sfilavano. Per intere stagioni è stato dominio incontrastato, e da lì in poi la sartoria è diventata accessorio: i vestiti erano solo una parte dello show. I direttori creativi all’improvviso dovevano diventare registi.


Una scena tratta dal film Euphoria

La questione però era più generale che particolare: l’effetto shock è ovunque. Al cinema, nei libri, nei social. Il pesce rosso (noi) s’è fatto ancora più distratto: otto secondi. I report dicono che stare online sui social ci ha mangiato tutta la capacità di concentrazione. Un minuto di attenzione è un miraggio. Tu che vuoi fare arte, musica, moda o letteratura, vedi quindi di tenerci incollati, o cambiamo canale. Prendiamo l’industria dell’intrattenimento. L’effetto wow! ha creato fenomeni come Baby Reindeer, a quanto pare la miniserie tv del decennio. Di cosa parla? Del peggio che si può offrire come congresso umano: stalking, abuso, malattia mentale. Orrori che ora il pubblico mangia come caramelle. Infatti Baby Reindeer ha fatto saltare il banco: 84 milioni di visualizzazioni in pochi mesi. Non ci sono precedenti simili. Sentimento prevalente durante la visione: l’ansia. È la parabola del contemporaneo, specchio di noi spettatori deformati. Il gusto dell’estremo alla fine è un vecchio trucchetto psicologico, ti colpevolizza: mostra il peggio, portando il pubblico a chiedersi di continuo: «Stiamo diventando anche noi così?».


Una scena tratta dal film Baby Reindeer

Tra le serie acclamatissime, straviste, c’è anche Euphoria. Il manifesto narrativo di una generazione si ripete come sopra: droghe, sesso, traumi familiari. Tutto confezionato in un’estetica ipnotica. Qui la domanda non è più se bisogna sconvolgersi, ma se riusciamo ancora a distinguere l’empatia dall’intrattenimento. Trionfano le storie di ossessioni, potere e manipolazione. Le critiche sempre identiche, comunque buone per alimentare l’attenzione, anche quella negativa, che è il nuovo marketing. La cifra del normale, da che era un requisito minimo per fare storie credibili, non interessa più. Black Mirror è la punta emersa del fenomeno: una collezione di ansie tecnologiche e morali, un film dell’orrore a episodi. Non si capisce bene se guardiamo per riflettere o alimentarci di nuove paure che, paradossalmente, ci danno un senso di sicurezza perché sembrano ancora fatti alieni, distanti. Quindi chi si prende la responsabilità del tracollo? Forse nessuno. È semplicemente il risultato di un sistema annoiato, che cambia freneticamente perché il meglio è alle spalle, il meglio l’hanno già inventato. Era il secolo scorso e non ce ne siamo accorti?