Nowhere People

Nowhere People

di Davide Piacenza

Secondo i dati condivisi dalle Nazioni Unite, nel mondo gli apolidi sono milioni. Le ragioni per cui lo si diventa sono tante, spesso drammatiche, a volte assurde. Scopriamole

Nessuno è profeta in patria, ci dicono fin dai tempi del catechismo, ma ancor più complesso è profetizzare quando una patria non c’è. Secondo i dati condivisi dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati nel 2021, nel mondo vivono 4,3 milioni di apolidi: un dato che per l’Unhcr è fortemente sottorappresentato, per via delle ovvie difficoltà nel tracciare il fenomeno, e che l’istituzione stima riguardare più verosimilmente oltre dieci milioni di persone.

Si diventa apolidi per una miriade di motivi: guerre civili, ritorsioni di governi su minoranze etniche e sociali, ma anche bizzarrie delle leggi internazionali. Il 5 giugno del 2009 a Pechino nasceva Rachel Chandler, figlia di un 22enne insegnante di inglese dell’Ontario, Patrick, e della sua compagna cinese Fiona: la piccola ha passato i suoi primi 14 mesi di vita senza documenti, dato che la legge canadese le negava la cittadinanza (il padre Patrick era nato in Libia, dove a quel tempo lavoravano i suoi genitori nordamericani, e la naturalizzazione in Canada è legale solo per una generazione di discendenti) e la Cina non era disposta a registrare la figlia di una coppia non sposata. Dopo molti appelli e kafkianissimi vicoli ciechi burocratici, che hanno imposto alla famiglia di non uscire da Pechino per più di un anno, l’Irlanda – terra di provenienza del nonno paterno di Rachel – ha infine tolto i Chandler dal considerevole impaccio, fornendo un passaporto made in Dublin alla loro primogenita.


Una scena del film The Terminal, con Tom Hanks.

Un’altra causa di discriminazione nel conferimento della cittadinanza è il sessismo istituzionale: è sempre l’Onu a dirci che 25 Paesi del mondo impediscono per legge alle donne di trasmettere la loro nazionalità ai figli come fanno gli uomini. E le conseguenze vanno oltre l’assenza di un pezzo di carta: un apolide non ha diritto legale alle cure sanitarie, all’istruzione, a quella complessa trama di riconoscimenti individuali su cui si fonda la società moderna. Di magra consolazione, per le vittime di questa condizione rara e feroce, dev’essere la consapevolezza di condividerla con alcune figure storiche di peso.

Lo stesso Albert Einstein per cinque anni fu apolide: nel 1896 aveva deciso di rinunciare a essere un tedesco per non prestare il servizio militare obbligatorio, e solo nel 1901 ottenne il meno belligerante passaporto elvetico, prima di accasarsi negli Stati Uniti. Emil Cioran, scrittore e filosofo nato in Romania all’inizio del Novecento, visse in Francia da esule senza patria a partire dal 1937 e dedicò alcune delle sue pagine più riuscite all’apolidia: «La nostra epoca», scrive, «sarà segnata dal romanticismo delle persone apolidi. Già si sta costruendo l’immagine di un universo in cui nessuno avrà diritti civili».

Ma l’apolide per antonomasia rimarrà Mehran Karimi Nasseri, il rifugiato di provenienza iraniana che visse per 18 anni all’interno del Terminal 1 dell’aeroporto di Parigi Charles De Gaulle. Nasseri, scomparso l’anno scorso, si era inizialmente stabilito nello scalo parigino nel 1988 per un circolo vizioso: la sua regolarizzazione dipendeva da una tessera di rifugiato che avrebbe dovuto ritirare in Belgio, ma senza documenti non poteva lasciare la Francia per farlo. Divenuto un’icona dell’aeroporto, Steven Spielberg nel 2004 gli dedicò il film The Terminal, con Tom Hanks. Certe appartenenze, forse, bisogna costruirsele.