

Nessuno dimenticherà l’ultimo concerto di Ozzy Osbourne
Ozzy Osbourne se n’è andato. Poco prima di morire, aveva salutato il palco con un ultimo concerto monumentale: 9 ore di musica, 40mila persone, amici, fan e leggende del rock riunite per celebrare il Madman. Un addio epico, come solo lui poteva fare
Le mani tremano. La voce si spezza. Gli occhi si riempiono di lacrime, suoi e nostri. A Birmingham, davanti a 40.000 persone, Ozzy Osbourne (appena scomparso) ha chiuso il sipario su oltre cinquant’anni di carriera con un concerto lungo nove ore e trasmesso in tutto il mondo. Lo ha fatto su un trono a forma di pipistrello e in compagnia di molti ospiti, o meglio, amici. Il mondo, in silenzio, ha ascoltato. Non è stata una celebrazione, e nemmeno nostalgia. È stata una fine. L’ultima, vera, definitiva.
Il titolo scelto, Back to the Beginning, non era solo simbolico: l’evento ha avuto luogo ad Aston, il quartiere dove tutto era cominciato. E per l’occasione, Ozzy ha voluto esserci. Davvero.
Affetto da Parkinson, 76 anni, visibilmente provato, si è seduto sul suo trono e ha fatto ciò che ha sempre fatto: trasformare l’eccesso in rito. L’evento ha riunito sul palco il gotha del rock: Slash, Zakk Wylde, Tom Morello, Steven Tyler, Ronnie Wood, Nuno Bettencourt, Axl Rose, Alice in Chains. Una celebrazione metal, eppure mai autocelebrativa, organizzata come un passaggio di testimone. 190 milioni di dollari raccolti per la ricerca sul Parkinson e per ospedali pediatrici. Una cifra enorme. Un’eredità viva.

Nel 1992 aveva già detto basta. Una malattia degenerativa, l’annuncio del ritiro, la prima reunion dei Black Sabbath per un ultimo ballo. Poi la diagnosi si rivelò sbagliata, e la fine venne rimandata. Trentatré anni dopo – cifra tonda, simbolica, quasi biblica – la scena si è ripetuta. Ma stavolta, senza finzioni. C’erano le corna al cielo, le lacrime negli occhi. Soprattutto, c’era la consapevolezza che quella sera, quella precisa sera del 5 luglio, il sipario si stava calando per sempre. Ozzy non è mai stato uno da mezze misure. E anche nel congedo ha scelto la via più teatrale, eccessiva, iconica. Chi c’era lo sa: non lo dimenticherà. Ora che non c’è più, quel concerto diventa qualcosa di ancora più grande: l’ultimo atto di una leggenda, e il suo vero testamento.
L’ultimo concerto di Ozzy Osbourne
Ha aperto da solo, con i suoi brani più famosi: Crazy Train, Mr. Crowley, No More Tears. Ma è con Mama I’m Coming Home che il cuore ha ceduto: la voce che trema, le mani che tremano, la vulnerabilità esposta come un’ultima forma di verità. In quel momento, il Madman è sembrato più umano che mai. Non c’erano effetti speciali che potessero distrarre da ciò che stava succedendo davvero: un uomo stava salutando il suo pubblico, forse per l’ultima volta.
Dietro le quinte, l’atmosfera era da festa lisergica anni Ottanta. Ross Halfin parlava di Kerrang!, Bill Ward sembrava ringiovanito, Steven Tyler dispensava baci come santini, Axl Rose perdeva la voce ma non l’attitudine. Tom Morello, regista occulto della giornata, ha orchestrato due superband con musicisti del calibro di Nuno Bettencourt, Slash, Ronnie Wood, Zakk Wylde. Gli Alice in Chains hanno salvato uno streaming in differita che, fino a quel momento, rischiava di sabotare l’esperienza.

Da casa, lo show aveva qualcosa di straniante. Sembrava un funerale travestito da carnevale. Una celebrazione metal che oscillava tra l’euforia e il dolore, la memoria e la fine. Ogni artista che saliva sul palco era come una madeleine amplificata: ti ricordava la prima volta che lo avevi visto dal vivo, quando loro sembravano già vecchi e tu pensavi di avere tutto il tempo. Adesso loro sono vicini ai settanta, e tu hai finito le lacrime.
E quando sembrava finita, la sorpresa: Ozzy è tornato sul palco con Tony Iommi, Geezer Butler e Bill Ward. La formazione originale dei Black Sabbath di nuovo insieme per un’ultima, autentica, irripetibile reunion. Hanno suonato War Pigs, Children of the Grave e infine Paranoid, chiudendo un cerchio lungo cinquant’anni. Breve, crudo, epico. Nessun discorso, solo musica. È stato perfetto. Niente da aggiungere, niente da togliere.

Qualcuno ha parlato di “pornografia del dolore”. Ma forse bisognerebbe smettere di guardare tutto con cinismo e riconoscere il valore di un gesto puro: un uomo che, consapevole della sua fine, sceglie di andarsene a modo suo. Con dignità. Con amore e con la sua musica. È stato un congedo potente, reale, necessario. Più forte del Live 8, più emotivo del Celebration Day. Una chiusura che non ha cercato la perfezione, ma la verità. Lo ha detto anche Elton John, in collegamento video: “Ozzy è la voce più riconoscibile della storia del rock”. E nessuno ha osato contraddirlo.
Prima di andarsene, Ozzy ha rimesso insieme i pezzi di una storia irripetibile. Ha salutato con l’unico linguaggio che conosce davvero: la musica. Lo ha fatto con la voce spezzata e la testa alta regalando alla comunità metal (e non solo) un addio all’altezza del mito. Ha chiuso un cerchio durato oltre cinquant’anni. È finita. E non poteva farlo in modo migliore.