Manuale per sopravvivere ai cocktail analcolici (ed essere cool)
Courtesy Getty Images

Manuale per sopravvivere ai cocktail analcolici (ed essere cool)

di Digital Team

Il cocktail analcolico è diventato una scelta di gusto, non più solo di necessità. Cresce il consumo di drink no/low: ecco cosa c’è davvero dentro (e dietro) il bicchiere

Bere alcolici non fa più figo? Una domanda lecita. Anzi, inevitabile. Soprattutto oggi che il bicchiere più cool dell’estate non è un Martini dry con oliva, ma un blend di verjus fermentato, estratto di rabarbaro e un pizzico di pepe di Timut. Senza un grado alcolico, ma con un tasso altissimo di conversazione.

Per secoli, bere è stato teatro. Cinema. Rock’n’roll. Dai brindisi impolverati di Casablanca alle spirali autodistruttive di Charles Bukowski, passando per i whisky torbati di Dylan Thomas e le bottiglie spaccate di Amy Winehouse. L’alcol era l’icona, il catalizzatore, il medium. Il drink non dissetava: significava. Era un modo per entrare in scena, o uscirne. Ma poi qualcosa è cambiato.

cocktail drink analcolici
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Le nuove generazioni hanno cominciato a dubitare. L’alcol ha smesso di essere l’accessorio sexy del carisma notturno e ha iniziato a sembrare, in certi contesti, un invadente zio ubriaco al pranzo di Natale. In parallelo, cresceva una nuova sensibilità fatta di consapevolezza, salute mentale (e fisica), performance, ma anche gusto, estetica, immaginazione. Ed è qui che inizia la storia del no/low-alcohol come rivoluzione estetica, non come privazione.

Zero (alcol) è il nuovo nero

Qui non si parla del Crodino. Dry, botanici, fermentati, cordiali – cioè concentrazioni liquide a base di frutta, spezie e acidi naturali, usate per strutturare i cocktail con profondità aromatica – sono diventati i nuovi strumenti d’espressione della mixology. Qui l’assenza di alcol non toglie, anzi: apre spazio a una ricerca estrema di sapore, equilibrio e storytelling. Il vecchio “mocktail” lascia il posto a una grammatica sensuale e precisa, dove il bartender ragiona come un naso da profumo e un sommelier in acidità. Se prima il massimo della non-alcolicità era un Sanbittèr in terrazza con la zia, oggi nei bar fine dining si trovano pairing analcolici da 70 euro a persona. Non è più rinuncia: è estensione del piacere.

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Il primo nome da conoscere è Seedlip, il “gin che non è un gin” ideato da Ben Branson (immaginatelo come un Rick Owens della botanica: cupo, elegante, ossessivo). Oggi affiancato da marchi come Lyre’s, Pentire, Feragaia, ognuno con un suo immaginario: dalla Cornovaglia spazzata dal vento alle distese aromatiche australiane. Ci sono poi i vini e le bollicine dealcolate: Riesling tedeschi Leitz Eins Zwei Zero, i kombucha di Real, o i calici “funky” di NON – profumati, strutturati, aciduli, narrativi. Vini senza vino, ma con terroir emotivo. E naturalmente i cordiali d’autore, come quelli di Christopher’s (venduti da Fortnum & Mason), o le pozioni mood-altering di De Soi (fondata da Katy Perry) e Three Spirit: ready-to-drink sofisticati con botaniche funzionali, spezie ayurvediche e tecniche erboristiche da speakeasy spirituale.

I numeri parlano chiaro (e parlano millennial)

Nel 2025 il consumo di bevande no/low-alcohol è esploso. Secondo IWSR Drinks Market Analysis, il settore supererà i 681 milioni di dollari entro il 2030, con una crescita annua del +7%. In Italia, il 20% dei giovani adulti consuma regolarmente drink low/zero. E il trend ha già un nome: zebra striping, ovvero alternare cocktail alcolici e analcolici nella stessa serata, per stile, energia, o semplice intelligenza sociale.

A Wimbledon 2025 hanno servito versioni zero-proof del Pimm’s e dello spritz, tra acque toniche artigianali e gin analcolico al pompelmo rosa. Alla faccia dei puristi. A Milano, ordinare un cocktail senza alcol non è più da driver designato. È da intenditore. Chi sceglie il no/low non lo fa (più) per rinuncia, ma per affermazione di stile. È come mettere un disco dei Boards of Canada in una serata reggaeton: sottile dissonanza chic. In certi casi, è collezionismo: alcune bottiglie analcoliche in edizione limitata raggiungono prezzi da aste di vino naturale.

cocktail drink analcolici
cocktail drink analcolici

Nei club di Berlino, nei rooftop di Lisbona, nei bistrot brutalisti di Tokyo. I bartender parlano di fermentazioni controllate, distillazioni vacuum, infusioni osmotiche. I menu presentano drink analcolici come protagonisti, non come ripieghi. È una nuova scrittura della notte. Come se Greta Garbo non bevesse più martini ma cold brew all’ibisco e rabarbaro. Come se Mad Men fosse diretto da Sofia Coppola. Come se la notte fosse diventata più lucida, ma non meno affascinante.

Bere no/low oggi può essere tante cose, ma non una rinuncia. È gusto, autocontrollo, apertura mentale. È saper scegliere. Non togliere. Il che, in fondo, è sempre stato il vero segno dell’eleganza. E se proprio vi manca l’alcol, pensatela così: il gin tonic è il denim. Onesto, eterno, ma un po’ banale. Il nuovo chic è tutto quello che viene dopo.