Dentro il mondo dei members’ club
Courtesy Soho House

Dentro il mondo dei members’ club

di Tiziana Molinu

Non sono hotel, non sono ristoranti, e non sono nemmeno coworking. I members’ club sono ecosistemi in miniatura dove il lifestyle incontra l’identità, e dove l’accesso — selettivo e costoso — promette più di un semplice tavolo riservato

All’apparenza sembrano solo un nuovo, lussuoso mix tra ristorante, bar e hotel. In realtà, i members’ club – ovvero i club privati a pagamento – sono molto di più: sono nuovi altari dell’appartenenza, piccoli universi dove il lifestyle incontra l’identità, e dove l’accesso si guadagna (anche) con la carta di credito. Oggi, città come New York e Londra li considerano imprescindibili. E ora Milano è pronta a fare lo stesso.

Un tempo ingessati e polverosi, frequentati da industriali in gessato e aristocratici di ritorno da Saint Moritz, oggi i club privati si sono scrollati di dosso l’etichetta da romanzo ottocentesco e sono diventati hotspot sociali, cuciti su misura per le nuove élite creative e internazionali. Non più solo uomini in giacca e cravatta che discutono di cavalli o affari, ma community trasversali che spaziano tra imprenditori digitali, celebrity, curatori, modelle e fondatori di startup. Se hai un’idea brillante, un guardaroba curato e una certa familiarità con il Negroni sbagliato, sei già a metà dell’opera. Così, da White’s a Londra al San Vicente Bungalows a Los Angeles, è riesploso l’amore per questi “terzi luoghi d’élite”. E Milano? Milano osserva, impara e, lentamente, si trasforma.

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Milano chiama, il club risponde

Che Milano fosse pronta lo dimostrano gli indirizzi: Casa Cipriani, il Lucid, Aethos, The Wilde. L’ultimo, The Wilde, ha aperto le sue porte a ottobre 2024 nella storica Villa Platano, a due passi da via Montenapoleone. Ex residenza di Santo Versace, oggi ospita soci illustri — tra cui, si mormora, anche Rihanna — tra opere di Warhol, poltrone Art Déco e un cigar lounge che pare uscito da un film di Luca Guadagnino. A breve arriveranno anche Soho House e il celebre Core Club di New York: due pezzi da novanta dell’hospitality internazionale, pronti a reinterpretare il lusso secondo la grammatica milanese.

Eppure, qui il terreno è delicato. L’Italia non ha mai avuto una tradizione forte di club privati sul modello anglosassone, e persino a Milano – città cosmopolita, certo, ma pur sempre culturalmente legata alla socialità pubblica – il concetto stenta a decollare davvero. Non è solo una questione di prezzo: 2.000 euro l’anno per accedere a un ristorante – si minimizza – non sembrano un buon investimento per chi ha già a disposizione centinaia di posti dove vedere ed essere visto. Ma è anche una questione di mentalità: in Italia, il valore della collettività non si traduce facilmente in un sistema chiuso e a pagamento.

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Perché la vera domanda è questa: i club privati sono davvero per tutti? O sono solo un altro capitolo – patinato e ben arredato – della retorica dell’esclusione? Storicamente, Milano ha già visto questo film. Il Clubino Dadi, fondato nel 1901, è ancora lì, a due passi dalla Scala. Rigorosamente maschile, accesso tramite votazione interna, nulla che richiami il mood di un brunch da Instagram. Eppure, è da lì che bisogna partire per capire la tensione tra passato e presente, tra élite e comunità.

Da club di élite a comunità selezionate

Eppure qualcosa si muove. Lo dimostra l’interesse crescente da parte degli expat, dei professionisti internazionali e degli italiani di ritorno, spesso più abituati a logiche anglosassoni. È questa fascia di popolazione – globetrotter con un’agenda piena e un guardaroba full Loro Piana – a considerare il members’ club non come un privilegio vintage, ma come un hub relazionale, un’estensione del proprio sé professionale e culturale.

Non è un caso che The Core Club, uno dei più noti al mondo, abbia scelto proprio Milano per aprire la sua prima sede europea. La location? Un palazzo maestoso in Corso Matteotti, ancora in ristrutturazione. Soho House, invece, ha scelto l’ex Cinema Arti, tra San Babila e Corso Indipendenza, per replicare il successo romano in chiave milanese.

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Intanto, nel mondo, l’espansione continua. A Manhattan, l’Upper East Side ha accolto di recente il Maxime’s e il Casa Tua. A Londra — dove tutto è iniziato — l’offerta si aggiorna con The Other House Covent Garden e House of Gods a Canary Wharf. E mentre il White’s Club, attivo dal 1693, resiste con la sua aura regale (Carlo III pare lo abbia scelto per il suo addio al celibato con Lady Diana), nuove formule ibridano tradizione e Instagram appeal.

Members’ club: l’appartenenza is the new luxury

Ma davvero questi club sono “solo” spazi di ospitalità? In realtà, sono molto di più. Secondo Nadine Choe, founder di The Stanza Media, i members’ club sono strumenti di curation culturale. Non si entra solo per bere un drink, ma per accedere a un ecosistema — estetico, sociale, intellettuale — dove tutto è studiato per far sentire i membri parte di qualcosa. Più che un luogo, un moodboard condiviso.

E qui arriva il punto più interessante: la membership, spesso costosa, diventa un simbolo di status meno appariscente di una borsa firmata, ma potenzialmente più duraturo. Come suggerisce Choe: «Se aveste 5.000 dollari da spendere, li usereste per una nuova borsa o per un accesso a una community che vi rappresenta?». E se il lusso si gioca sull’esperienza più che sull’oggetto, la risposta non è così scontata.

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Courtesy Casa Cipriani

Terzo luogo o territorio d’élite?

Il rischio è che il “terzo luogo” — concetto nato per includere — diventi un ennesimo recinto. Che l’appartenenza si compri, e che il valore della socialità spontanea venga eroso. Le piazze, i centri culturali, i bar di quartiere sono ancora i veri polmoni urbani. Spazi vivi, aperti, accessibili. E forse la sfida più interessante sta proprio lì: non replicare i modelli anglosassoni, ma immaginare un’ibridazione capace di valorizzare anche la nostra natura più relazionale, più informale, più… italiana. La questione aperta: se per sentirsi parte serve una carta platinum, che fine fa la socialità pubblica? Il rischio è quello di trasformare il networking in un privilegio, e l’appartenenza in una merce.

Sarà un caso che proprio Milano, con la sua doppia anima — borghese e ribelle, contenuta e teatrale — sia diventata il campo di prova perfetto? Forse no. Qui, tra i cortili segreti e le insegne al neon di Porta Venezia, si muovono i due poli di questa trasformazione: da un lato l’esclusività curata al dettaglio, dall’altro la vita che pulsa senza badge. Tra questi due mondi, forse, c’è ancora spazio per un nuovo modo di stare insieme.

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Courtesy Casa Cipriani

E allora la domanda non è se i members’ club dureranno. Ma piuttosto: che tipo di comunità vogliamo costruire? La risposta, come sempre, si gioca nello spazio che sta in mezzo. Tra un cocktail d’autore a Villa Platano e un caffè al bancone di un bar di quartiere. Tra un libro rilegato in pelle e una chiacchiera improvvisata al parco. Forse il futuro non sarà fatto solo di club con piscina sul rooftop e installazioni di Damien Hirst all’ingresso. Forse il vero lusso sarà ritrovarsi, semplicemente, nello stesso posto, con le stesse persone, senza bisogno di badge dorati.