Nuovi giovani talenti

Nuovi giovani talenti

Da Andrea Arru, 18 anni e già due o tre vite, a Celeste Dalla Porta, attrice rivelazione. Dal nuotatore dei record Carlos D’Ambrosio al violinista gentile Simon Royer. Ecco la nuova scena

di Ester Viola

Lo speciale firmato da Giampaolo Sgura ritrae una nuova generazione di talenti. Da Andrea Arru, 18 anni e già una serietà quasi adulta, a Celeste Dalla Porta, attrice rivelazione. Da Carlos D’Ambrosio, uno dei più giovani della spedizione azzurra ai Giochi Olimpici di Parigi 2024, a Simon Royer, violinista gentile. Ecco i volti che più ci hanno impressionato per impegno, doti e performance, tra sport, musica, entertainment, grande schermo.

Andrea Arru

A 18 anni ha quella forma vagamente austera di leggerezza di chi ha visto di cosa è fatta la responsabilità prima del tempo. E perciò riesce a prendere tutto sul serio. Tranne se stesso.

Ha esordito bambino in Principe libero, è diventato il volto giovane di Di4ri su Netflix e nel 2024 ha conquistato il box office con Il ragazzo dai pantaloni rosa, che gli è valso il Premio Kinéo Giovani Rivelazioni a Venezia. A 18 anni Andrea Arru ha già due o tre vite. Con l’alta moda e i set ha cominciato a 7 anni. A Roma ha cambiato cinque case in sei mesi.

«All’inizio è stato difficile», racconta ridendo. Il Giubileo non era il periodo migliore per trasferirsi», ride ancora. No, non lo era. Ma Andrea Arru non ha mai avuto molto tempo per la normalità: «I primi contributi allo Stato li ho versati a sei anni». L’inizio di tutto non è una storiella da prodigio precoce, è piuttosto un’infanzia accorciata.

Andrea Arru
Andrea Arru indossa cappotto e pantaloni Dior, tank top Prada, stivali Dsquared2.

Il primo set, Armani: qualcuno gli dà qualcosa da colorare mentre intorno si muove un mondo che ancora lui non sa nominare. Però gli piace. È felice soprattutto perché ha il permesso di non andare a scuola, perché si viaggia.

Poi arriva la recitazione, quasi per istinto: a 8 anni gli propongono una piccola parte, e al ritorno dice al padre: «Se deve essere qualcosa, voglio fare questo». Una decisione presa alla stessa età in cui gli altri scelgono i giocattoli, lui sceglie il cinema.

È sempre stato il primo a svegliarsi sul set. Non per ansia, per disciplina. Però non c’è traccia di compiacimento nel modo in cui lo racconta: la sua è una serietà limpida, anche adulta, diresti. Un senso di rispetto verso il mestiere. Ogni tanto bisogna ricordarsi che ha appena compiuto 18 anni. E che sì, gli è mancata una parte di leggerezza.

Andrea Arru
Camicia button-down e jeans spalmato 501 Original Levi’s Red Tab, cintura in pelle Levi’s, cravatta Lardini, cappello e stivali Dsquared2

È cresciuto in fretta, e l’ha fatto sotto gli occhi di chi guarda, e poi giudica, e alla fine decide se ci saranno gli applausi. Una cosa non la sa fare. «Ridere per finta. Non è per me. È difficile che io percepisca che la mia risata sia vera», dice.

Aggiunge di essere molto critico, «specialmente con il mio lavoro», e di avere bisogno della voce che smonta, non di quella che liscia. Ha riferimenti chiari come le idee: un tempo avrebbe detto DiCaprio, ora dice Brad Pitt, tra i modelli aspirazionali. La scelta finale però è Robin Williams, perché gli ricorda suo padre, «capace del lato tragicomico». E Tarantino, certo: il gusto per il personaggio che vive negli angoli strani, non nei buoni sentimenti.

Andrea Arru
Andrea Arru indossa giacca in denim ricamato Levi’s Blue Tab, camicia button- down e jeans spalmato 501 Original Levi’s Red Tab, cintura in pelle Levi’s, cravatta Lardini, stivali Dsquared2

I social li usa, anche troppo: «Ci lavoro, sì. Ma mi spaventa che di tutto quello che vedo non mi resti nulla. Se mi chiedi cosa ho visto oggi, non lo so dire». È un effetto collaterale della sua generazione, e lui lo osserva con una distanza affilata. Avrà capito prima del tempo che è assenza travestita da esperienza.

È un ragazzo di un’età indefinita, somiglia alle sue espressioni, quella forma vagamente austera di leggerezza che appartiene a chi ha visto di che materia è fatta la responsabilità prima del tempo. Quindi riesce a prendere tutto sul serio, tranne se stesso. Come quegli attori americani cui comincia già a somigliare.

Celeste Dalla Porta

È già stata definita una rivelazione. Lo è. Lei preferisce una cifra diversa, per il momento. Meno frenetica e pochissimo rapida: ascoltare, studiare, imparare (tanto) e costruire.

Celeste Dalla Porta (Milano, 1997) viene da un ambiente decisamente stimolante: nipote del fotografo Ugo Mulas, figlia del contrabbassista jazz Paolino Dalla Porta, dopo il liceo artistico a Brera e un diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia è la protagonista del film di Paolo Sorrentino Parthenope (2024).

Celeste Dalla Porta
Celeste Dalla Porta con shearling caban Gucci

Quindi non si tratterebbe propriamente di una interprete emergente: siamo già ai firmamenti. Entrare in un cast guidato da uno dei registi più autorevoli non significa solo comparire: significa misurarsi, assumere responsabilità, comportarsi come se si sapesse già fare quello che ancora non esiste. Celeste lo sa; per lei, quel periodo è stato, dice, «lungo. E interessante. È diventata un’esperienza quasi scolastica».

Qualcosa di essenziale, in quella lezione? «Che diventava la questione principale essere lì. Amare così tanto una sceneggiatura, come in quel caso. O avere così chiaro il desiderio che lo volevo fare. Ma non era un desiderio che mi schiacciava, o mi metteva contro me stessa, o mi portava all’arrivismo, se riesco a spiegarmi. Mi ripetevo: “Ho questa grande possibilità. Se poi non va bene, mi accontenterò dell’esperienza di stare vicino a un regista come Sorrentino”».

Celeste Dalla Porta
Celeste Dalla Porta indossa bralette, shorts, collant e décolleté Prada

C’è qualcosa di perfetto e micidiale nei geni. È una incantatrice. Ti fissa, Celeste, e il tempo si smargina. La sua sincerità rivela già molto: non si tratta solo di sperare di riuscire, ma di desiderare il mestiere. Eppure, quando la domanda diventa “Sei un’insicura?”, la risposta è: «Io sì. Tutti gli attori lo sono. E dopo questo film per certi aspetti lo sono di più, per altri meno».

Ha uno sguardo ampio: «Ci sono personaggi che mi hanno regalato qualcosa. Eva Green in The Dreamers. Mi ha toccata. Ha quel suo rimanere così bambina. Che per me alla fine è il compito dell’attore. Mi piace molto Penélope Cruz nei film di Almodóvar. È magnetica. E Almodóvar riesce a tirar fuori un elemento magnetico, viscerale. Solo a lui mi pare riesca con quella cifra».

Celeste Dalla Porta
Celeste Dalla Porta con top, gonna e décolleté Saint Laurent by Anthony Vaccarello

Sul ruolo in Parthenope: «L’audizione era da sola un corso di recitazione. Ho studiato la parte, ho approcciato il personaggio in molti modi; era molto lungo. Un giorno sembrava che fosse andata disastrosamente, poi mi richiamavano».

È l’epoca dello sfavillio facile, questa, in cui l’esposizione spesso precede la maturità, Celeste è da una parte, già sola, e sembra appartenere a una scuola diversa: quella di chi arriva per capire. Ascolta, studia e costruisce. Non evita l’insicurezza – è usata con intelligenza come materia di lavoro – e difende una qualità sparita: la capacità di restare curiosa, quasi stupita.

È già stata definita una rivelazione. Lo è. Lei preferisce una cifra diversa, per il momento. Meno frenetica e pochissimo rapida: imparare. Imparare tanto. Una frase minima, per niente modesta.

Carlos D’Ambrosio

Negli ultimi anni si è imposto come uno dei nomi più promettenti dello stile libero italiano. Ma tempi e medaglie sono il traguardo di un percorso fatto di cadute e grandi ripartenze.

Certi atleti sembrano costruiti per il palco del vincitore. Idee chiare, disciplina, risultati che si accumulano, un talento che cresce quasi predestinato. Carlos D’Ambrosio non è di quelli. La sua storia è fatta di notti in cui si vorrebbe dormire e non si riesce, momenti nei quali l’acqua sembra più pesante del corpo che dovrebbe sostenerla.

Forse è proprio questo a renderlo diverso: un ragazzo del 2007 cresciuto tra Valdagno e Verona, origini napoletane e cubane, un nuotatore che ha collezionato medaglie con la stessa fiducia con cui ha collezionato cadute e ripartenze.

Carlos D'Ambrosio
Carlos D’Ambrosio con occhiali da sole Akoni Eyewear, pantaloni Zegna

Negli ultimi anni si è imposto come uno dei volti più promettenti dello stile libero italiano: il più giovane a Parigi 2024, poi l’argento mondiale di Singapore, il bronzo di Budapest, i record nazionali frantumati. Ma, dietro ai tempi e alle medaglie, c’è una voce che racconta un percorso tutt’altro che lineare. La pressione, per esempio. Non la nega, non la rende neanche romantica: dice solo che «si gestisce con l’esperienza».

Che più entri in acqua in contesti importanti, più capisci quanto vali davvero. Lo dice con la concretezza di chi ha imparato presto che il talento non basta, che corpo e testa non sono sempre pronti all’alleanza quando gliela chiedi. C’è stato un tempo in cui le gare lo consumavano. «Dormivo male, avevo paura di un brutto risultato», dice guardando le prime fasi della sua carriera.

Carlos D'Ambrosio
Giacca, camicia e pantaloni Lardini

È un dettaglio che sorprende in un ragazzo abituato a vincere, ma è lo stesso dettaglio che dà peso a tutto il resto. Quell’ansia lo ha accompagnato fino al punto più basso, quando gli è parso che il nuoto potesse diventare un’illusione. «Avevo quasi deciso di lasciare. Era un periodo in cui ero stato chiamato alle Olimpiadi di Tokyo come riserva, e secondo me non era giusto. Ci ero rimasto male».

La stagione successiva fu una corsa contro un risultato che non arrivava, un’idea di sé che rischiava di evaporare. Lì succede qualcosa. Un ragazzo di 17 anni che si guarda allo specchio e si chiede, senza troppi drammi «forse non è questa la tua strada».

Carlos D'Ambrosio
Carlos D’Ambrosio indossa giacca in denim Levi’s Blue Tab, camicia in denim e 578 baggy jeans Levi’s Red Tab, sneaker Hogan

Invece, proprio da quella incrinatura, esce una possibilità. Decide di fare “un’ultima gara”; è una leggerezza nuova, quasi uno svuotamento. Niente aspettative, né ambizioni di riscatto immediato. Va, nuota. E vince una tappa di Coppa del Mondo. È la svolta: «Ho capito che dovevo liberarmi dalle aspettative». È un’affermazione semplice, quasi disarmante.

D’Ambrosio parla spesso del cadere: «Sono una persona che cade molto. E ormai non ho più paura». Non lo dice per posa, né gli interessa costruire un personaggio, ma come si racconta una regola imparata a forza di sbatterci contro. La caduta come metodo.

Oggi è un atleta di livello internazionale, ma conserva una cosa che gli adulti dello sport spesso lasciano a margine: «Faccio un lavoro che è anche un gioco. Non devo perderlo di vista». La frase mi resta addosso più di ogni altra. Carlos D’Ambrosio ha già iniziato la sua traiettoria mondiale, ma la parte più interessante è che sembra aver capito, molto presto, qualcosa che di fatto si scopre tardi: si può cadere e ricominciare, e a volte il salto vero nasce proprio lì.

Simon Royer

Suona il violino da quando aveva 5 anni, e poi compone, orchestra, lavora nella moda, si muove tra i mondi con naturalezza. È un artista che vive nella molteplicità.

Sembra arrivato da un altrove cinematografico. O da un’astronave. Una gentilezza nei modi, il corpo sottile vestito di nero, il volto chiaro. Simon Royer attraversa lo spazio come se ne stesse rivelando un’altra dimensione. Ma è una dimensione concreta: 23 anni, suona il violino da quando ne aveva 5, Simon compone, orchestra, lavora nella moda, si muove tra i mondi con naturalezza.

Simon Royer
Simon Royer indossa giacca, camicia e pantaloni Dsquared2

Il suo percorso è iniziato in Bretagna, con una formazione classica passata attraverso la teoria musicale, l’orchestrazione e un pianoforte studiato quasi per necessità, mentre la passione restava il violino. È un artista che vive nella molteplicità: sui social crea contenuti legati alla musica, nelle serate parigine appare come violinista ospite tra galà, aperture e festival, e dal 2022 è rappresentato come modello. Una combinazione senza attriti, lui stesso dice che i suoi universi comunicano tra loro, anche quando non lo decide.

La sua è una sensibilità che non cerca semplificazioni. Quando gli capita di ricevere sempre la stessa domanda – quale sia il suo compositore preferito – dà una risposta che cambia continuamente. «Dipende dall’età, dal momento. Forse preferisco parlare di un tipo di musica più che di un singolo nome».

Simon Royer
Abito e bracciale (usato come collana) Dsquared2, tank top Brioni, mocassini Zegna

Il luogo dove si sente davvero a casa è l’inizio del Novecento, quello spazio tra continuità e mutazione in cui «tutto ciò che apparteneva alla pratica e alla tradizione del secolo precedente esiste ancora, ma la creatività inizia ad aprirsi. È un equilibrio che sta per spostarsi». I suoi riferimenti sono quelli: Debussy, Ravel, modernità ancora in dialogo con quel che che l’aveva preceduta.

È interessante notare come questo sguardo – transitorio ma mai indeciso – ritorni anche quando parla del pop contemporaneo. Ripercorrendo mentalmente gli ultimi 70 anni di musica, riconosce come «dal 1950 in poi ci siano state successioni di stili che definivano le epoche: rock, grunge, brit pop, rap». Ognuno aveva un’identità dominante.

Simon Royer
Giacca Tagliatore

«Mi sembra che negli ultimi dieci anni ci sia una sorta di fermo, come se non ci fosse un pop predominante. Non vedo una grande cultura mainstream». Viviamo in una frammentazione permanente, e l’algoritmo guida le sensibilità più di quanto ci accorgiamo.

C’è poi l’aspetto nuovo della fan base, che non segue soltanto l’artista: lo condiziona, lo struttura. «Un artista», dice, «oggi deve corrispondere a un insieme di aspettative. Ma è il pubblico a mescolare estetica e morale, intrattenimento e ruolo sociale». Simon non sembra intimorito: per lui è una scelta che spetta all’artista «assecondare o sorprendere». Non c’è un giudizio.

In apertura Andrea Arru indossa Giacca, camicia e pantaloni Loro Piana. Photos by Giampaolo Sgura styling by Edoardo Caniglia. Hair: Kiril Vasilev @GreenApple using Davines Italia. Make up: Juri Schiavi @Blend Management. Fashion contributor: Valentina Volpe. Styling assistants: Emily Cervi, Jacopo Ungarelli. Production: Gigi Argentieri @K-448.