

James Franco
Attore e regista, ma anche artista visivo, porta le sue opere a Zurigo per la mostra “Hollywood is Hell”. La Dreamland di sogni e film per lui è sia inferno che paradiso. Per un po’ lontano dai set, ora nelle sale con “Hey Joe”, ci parla di successo, risveglio e connessioni. «Non è mai troppo tardi per la redenzione»
Sui set di Spider-Man leggeva Marcel Proust. E mentre recitava, parallelamente, viveva da accademico con dottorato di ricerca a Yale. Scrittore di poesie, modello per Gucci, ma soprattutto divo di Hollywood vincitore di due Golden Globe (per la serie tv James Dean – La storia vera e per il film da regista e protagonista The disaster artist), James Franco ha tante passioni. E tanta voglia di perseguirle tutte.
È infatti anche artista visivo, che ha già esposto al MOCA di Los Angeles. A 46 anni, l’attore di Palo Alto ora è protagonista a Zurigo alla Galerie Gmurzynska della mostra Hollywood is Hell (ovvero, Hollywood è l’inferno).
Dal 17 dicembre al 17 febbraio 2025, 28 tele e oggetti d’arte, tutti esposti per la prima volta, compongono il ritratto di una Hollywood decadente, catturata da James Franco durante la pandemia. Nei collage si sovrappongono strati di segni, simboli e testo, le immagini di Bruce Willis e di Batman, il poster di American Pie, in una Dreamland diventata terra desolata.
La stessa Hollywood, che per James Franco è inferno ma anche paradiso, l’ha dimenticato per qualche anno, in seguito allo scandalo molestie in piena epoca #MeToo, per cui l’attore ha ammesso e pagato.
Ora James sembra essere sulla seconda montagna della sua vita, quella della connessione, come ci spiega nella generosa intervista a cui si è dato, da Los Angeles, via Zoom. «Quando ero sulla prima montagna, ero alla mercé del successo, l’unico modo che avevo per misurare il mio valore». L’arte è riuscita a fargli prendere le distanze.

È bello rivederti in azione. In Italia sei al cinema con il film Hey Joe di Claudio Giovannesi. Ora a Zurigo si inaugura la tua nuova mostra. È per te un periodo di rinascita, in Europa, lontano da Hollywood e dagli States?
«Come attore, ho vissuto un’esperienza incredibile in Italia. Adoro Giovannesi, è diventato un amico. Mi piace molto l’industria cinematografica italiana. Come artista, invece, dopo la pandemia ho iniziato a lavorare molto, senza sapere dove sarei andato a finire. Né ovviamente sapevo cosa sarebbe accaduto attorno a me. Mi dicevo: “Perché lavoro? Solo per soldi? No, lo faccio perché mi piace lavorare”. E ho iniziato a realizzare quadri. A questo punto della mia vita cerco semplicemente di agire e vedere dove mi porta. Ora mi ha portato a Zurigo».
Ma Hollywood è veramente l’inferno? E perché?
«So che il titolo suona come una critica ma per me non la è. Questo mi fa pensare che forse ho sbagliato titolo», sorride amabilmente James Franco.
«Uno dei migliori modi per spiegare perché Hollywood is Hell è citare il filmmaker underground Kenneth Anger, che ho conosciuto poco prima che morisse. Nel suo libro Hollywood Babilonia scrive di vecchie star e tragedie di Hollywood, in modo esagerato e sui generis. Ha preso le storie misteriose, le leggende e l’iconografia di Hollywood, trasformando tutto in qualcosa di nuovo e di mistico. In una sorta di cult. Ecco così che io ho usato Hollywood, da cui deriva la maggior parte della mia pratica artistica, come attore e regista, e l’ho usato come materiale a cui ho dato nuovi significati. Quindi forse il titolo giusto della mostra sarebbe stato Hollywood is Heaven and Hell».

Cos’è l’arte per te? Una sorta di rifugio? Il tuo momento di libertà da Hollywood?
«No, non è così semplice. La quantità di tempo, lo studio e lo sforzo che ho messo nell’arte fanno sì che sia diventata tanto importante quanto il lavoro cinematografico. Ho iniziato a disegnare e a dipingere ai tempi della scuola, prima di essere attore.
Ma poi i miei genitori non hanno voluto che facessi una scuola d’arte, quindi mi sono iscritto all’UCLA (l’Università della California, ndr) per studiare letteratura. A 18 anni sono andato a Los Angeles e lì tutti facevano film. Ho mollato l’UCLA per frequentare una scuola di recitazione e ho iniziato la mia carriera da attore. Ma l’arte è sempre stata lì, è sempre stata importante».
E dopo cos’è successo?
«Dopo aver lavorato nel cinema per circa dieci anni, sono ritornato a scuola. Mi sono iscritto alla RISD (Rhode Island School of Design), l’istituto in cui volevo andare da diciottenne. Una volta lì, a contatto con tanti giovani artisti, mi sono posto la domanda che prima o poi tutti si fanno: “Ma qual è il mio posto? Qual è la mia voce? Cosa sto facendo e perché?”.
Ho scoperto che il mio posto era in tutti i diversi mondi che amavo, contemporaneamente. La mia voce era prendere le diverse discipline e i differenti universi che stavo vivendo e metterli tutti insieme. Con l’arte faccio questo: prendo il materiale dal mondo del cinema e lo trasformo in opere d’arte. L’arte e il cinema sono profondamente connessi in me».

La mostra di Zurigo esplora anche la mascolinità, dalla figura di Bruce Willis all’icona di Batman, passando per Michael Jordan e John Travolta. Ma sembra una mascolinità devastata e decadente.
«Ho preso le icone di Hollywood per riproporle sotto forma diversa. Gli attori non sono più loro stessi, diventano simboli. Anche io, come attore, ho vissuto questa esperienza: quando attraverso una performance tocco il pubblico, tipo con un grande film come Spider-Man, è come se la mia immagine non mi appartenesse più ma appartenesse agli spettatori. Non mi sto lamentando di ciò, ma è strano avere un’immagine che quasi non ti appartiene.
Ho capito però che l’arte mi dà un po’ di distanza da questo fenomeno. Posso riutilizzare questa iconografia per nuovi motivi. Non devo essere solo alla sua mercé, quindi limitarmi a realizzare un film e poi vedere il mio viso usato per la promozione e magari per giochi del pubblico. Ho capito che posso usare tutto ciò per un mio progetto. In Hollywood is Hell è come se Bruce Willis e Batman diventassero personaggi in una nuova realtà».
Chi sono i tuoi artisti preferiti? A chi ti ispiri?
«Sicuramente Kenneth Anger, di cui ti ho già parlato: lui è il numero uno. E poi c’è un artista di Los Angeles, Paul McCarthy, insieme a suo figlio Damon: realizzano video e sculture utilizzando anche Hollywood come tema per molti dei loro progetti.
Poi Douglas Gordon. Forse il suo lavoro più famoso è 24 Hour Psycho, in cui ha rallentato il film Psyco di Hitchcock così da farlo durare 24 ore. Mi piace come questi artisti utilizzino film come tema e materiale, per poi trasformarli.
E poi il mio amico Harmony Korine, con cui ho girato Spring Breakers – Una vacanza da sballo: mi ha davvero ispirato nel suo passaggio da regista a ottimo artista.
Mi piace anche Pierre Huyghe, che realizza film e video. L’ho studiato quando ero alla RISD. Uno dei suoi primi pezzi, che amo molto, è sul film Quel pomeriggio di un giorno da cani con Al Pacino nel ruolo del rapinatore di banche John Wojtowicz. È basato su una storia vera; Pierre ha ricostruito il set della banca e ha chiesto al vero Wojtowicz, ormai uscito di prigione, di ricreare la rapina. È interessante vedere come Wojtowicz sia stato influenzato dal film e che i suoi ricordi siano un po’ distorti perché il film, anche se è finzione, esiste e diventa documento ufficiale».
Il collage è una tua forma espressiva e anche un simbolo della tua vita tra cinema e diverse forme espressive. Quanto ti rappresenta?
«Molto. Ho scoperto che la mia tendenza naturale è mettere tutto insieme. Tendo a fare più e più e voglio sempre più materiale. Per esempio, quando ho fatto il regista, mi sono trovato a voler girare più scene del necessario perché c’è così tanto che voglio inserire. Se avessi potuto, i miei film sarebbero lunghi 3 o 4 ore ma ho produttori ed editori che mi hanno frenato, perché non avrebbe giovato ai film, e sono contento che lo abbiano fatto.
Allo stesso modo, i dipinti sono una sorta di spazio dove posso fare e mettere sempre più cose. Ho iniziato molti lavori di Hollywood is Hell durante la pandemia. Stavo camminando per una Los Angeles completamente vuota, quasi post-apocalittica. Ho scattato foto per catturare quella sensazione. Mi piaceva la decadenza che vedevo intorno a me, perché era Hollywood, il luogo in cui si realizzano i sogni, ma era in declino.
Ho mostrato alcune immagini a Julian Schnabel e mi ha detto: “Jack Smith ha messo la spazzatura nelle sue opere ed è quello che stai facendo tu”. Ho messo la decadenza che ho visto per le strade di LA nei quadri».
Tornando al cinema, in Hey Joe sei un uomo deluso, un reduce di guerra. Hai amato questo personaggio? Hai trovato in lui qualche analogia con te stesso?
«In Hey Joe interpreto un uomo che, durante la seconda guerra mondiale, era di base a Napoli. Ha avuto una relazione con una donna, le aveva promesso che sarebbe tornato, ma non l’ha fatto. 25 anni dopo scopre che lei è morta e che ha un figlio di 25 anni. Sente di aver sprecato la sua vita e, andando a cercare suo figlio, spera di poter rimediare ad alcuni errori.
Adoro questo tipo di storie. Non è mai troppo tardi per la redenzione. Credo che una delle cose più importanti nella vita sia avere una specie di risveglio. È una mia convinzione e una mia esperienza.
Secondo il libro La seconda montagna di David Brooks, la prima montagna è quello che cerchiamo di scalare quando siamo giovani, è ciò che sogniamo e vogliamo. Ad esempio, voler diventare un attore, facendo quindi tutto il possibile per diventarlo. Poi alcune persone rimangono sulla prima montagna per tutta la vita, mentre altre vengono buttate giù. Quando sei caduto, puoi decidere di cercare di risalire la prima montagna e tornare al punto in cui eri, oppure puoi salire sulla seconda montagna, che è di spiritualità e connessione.
Si tratta di come puoi arricchire la vita, non di cosa puoi ottenere dalla vita. Per me questo tipo di risveglio è il più importante».

Com’è la tua relazione con il successo oggi e com’è cambiata nel tempo?
«Quando ero sulla prima montagna e il successo e il mio lavoro da attore erano tutto ciò che avevo per misurare il mio valore e la mia autostima, per convalidarmi, ero alla mercé del successo. Quando la mia carriera andava bene mi sentivo bene, quando non andava bene stavo male. Era un ottovolante: ogni carriera è di alti e bassi e stare su quelle montagne russe emotive non è piacevole.
Ho dovuto imparare a trovare altre fonti di valore, altri modi per trovare un significato nella vita, al di fuori della carriera, attraverso le amicizie, le connessioni e un’esistenza fuori dal lavoro che prima non avevo.
Ora, quando riesco a fare un film o una mostra d’arte, cerco semplicemente di essere grato e di fare del mio meglio».
In Hey Joe parli italiano. Come va con l’italiano ora?
«Il mio italiano non è bene», sillaba lentamente James Franco in italiano, scoppiando poi a ridere e riprendendo con l’inglese.
Sei stato modello di Gucci. Hai lanciato anche un marchio di moda streetwear. Qual è il tuo rapporto con la moda?
«Ho lavorato con Gucci per 6-7 anni, con Frida Giannini. Abbiamo avuto un ottimo rapporto e mi sono divertito molto. Ha anche sostenuto alcuni progetti artistici.
Ora ho il mio marchio Paly, anche se non avrei mai pensato di avere una mia azienda di moda. A convincermi è stato il mio socio Kyle Lindgren, un buon amico che veniva da varie esperienze nel mondo dello streetwear. È stato lui a notare alcuni miei disegni durante la pandemia».

Come Hollywood is Hell, anche la tua label Paly è nata durante il periodo Covid…
«Sì. Durante la pandemia i miei amici venivano da me ogni settimana, guardavamo insieme il reality The Bachelor. Io intanto disegnavo. Kyle l’ha notato e, sempre pronto a cercare idee fashion, ha pensato di portare una giacca di jeans su cui mi ha fatto disegnare. Ai nostri amici è piaciuto e hanno portato anche le loro giacche perché vi disegnassi sopra.
Abbiamo realizzato alcune magliette e felpe con i miei disegni e le abbiamo mostrate a H. Lorenzo, un buon negozio di Los Angeles, che le ha volute e le ha vendute tutte.
Alla Fashion Week di Parigi abbiamo allestito il nostro piccolo showroom in una stanza d’albergo, invitando negozi e buyer, e il lavoro è piaciuto. Siamo entrati in diversi negozi come Webster e Dover Street Market e l’etichetta sta andando molto bene.
È un altro esempio di come per me sia sufficiente agire, per vedere solo dopo dove si va a parare».
Quali sono i tuoi progetti futuri? Hai molti film in lavorazione…
«Sì. Di alcuni però non so cosa succederà. Ad esempio, due anni fa ho girato un film sulla figlia di Fidel Castro, in cui interpreto Castro, ma non so se uscirà mai. L’anno prossimo girerò diversi film. Intanto ho Hey Joe nelle sale, di cui sono molto orgoglioso».