Sergio Castellitto

Sergio Castellitto

«Un attore deve arrivare alla coscienza di essere un narratore. Per gioco, mi chiamo narrattore, con due t», ci dice. Uomo di stile e cultura, è protagonista del progetto speciale realizzato da Icon in collaborazione con Boggi Milano

di Silvia Vacirca

Disinvolto, elegante, smagato. Con il suo volto malin-comico – buffo e malinconico – e uno stile autenticamente individuale, Sergio Castellitto incarna, sullo schermo e nella vita, un tipo cinematografico alternativo allo yuppie plasticato degli anni Ottanta e al dandismo artificioso del guastafeste Jep Gambardella.

Nonostante nel 1999 abbia diretto Libero Burro – con Michel Piccoli e Margaret Mazzantini – il primo di sette film, Castellitto si considera un attore “prestato alla regia”: «Quando Margaret (Mazzantini, sua moglie nella vita, ndr) ha iniziato il suo vero percorso artistico, sono rimasto folgorato da una scrittura profondamente immaginifica, quasi odorosa. Ho sempre fatto film tratti dai suoi libri: da Non ti muovere (2004) a Venuto al mondo (2012) a Nessuno si salva da solo (2015), ad alcuni racconti inediti, come Fortunata (2017). Il mio rapporto con la regia è strettamente legato alla drammaturgia che Margaret ha prodotto in questi anni».

Sergio Castellitto
Giacca, camicia e cravatta Boggi Milano

Ma a scatenare il desiderio di continuare a cimentarsi nella regia è l’esperienza di Non ti muovere: «Margaret mi aveva addirittura regalato una copia del libro, dicendomi di farne ciò che volevo, di strappare le pagine che non m’interessavano. Poi intervenne anche nella sceneggiatura, naturalmente. Una serie di elementi che si sono convogliati in uno stato di grazia, tra cui l’incontro con Penélope Cruz.

Per gli altri film il cammino è stato diverso: Margaret ha collaborato in modo molto più forte, anche se in verità lo ha sempre fatto. Tutti i film che ho realizzato li ha montati lei: scrivere è una forma di montaggio e quello cinematografico è l’ultima forma, forse la più importante, della scrittura di un film. Ci siamo trovati anche a tagliare pagine o immagini che ci piacevano moltissimo e questo è esaltante e doloroso. Però scrivere significa anche rinunciare: è un percorso “a togliere” per arrivare a un segno di essenzialità».

In questo percorso “a togliere”, «gli attori restano l’elemento fondante. Sono arrivato alla conclusione che l’attore debba abbandonare quello che io chiamo il “mito della performance”, quasi un esercizio psico-ginnico. Per me un attore deve arrivare alla coscienza di essere un narratore. Per gioco, mi chiamo narrattore, con due t», come Castellitto, con due t. «Gli attori si nascondono dentro un cavallo di Troia», continua, «e nel mondo del personaggio infilano il loro. Io, per esempio, credo di essere un attore devoto ai registi con cui lavoro, ma mai servile. Vanno serviti, qua e là traditi. Basta non farsene accorgere».

Sergio Castellitto
Cappotto Boggi Milano

Soprattutto «i giovani, che siano attori o elettrauti, hanno il diritto di rivendicare la loro presunzione. Il tempo, la vita e l’esperienza s’incaricheranno di ridimensionare» le acerbe arroganze. «Anche la vita, come la scrittura, è qualcosa che si percorre “a togliere”. Un blocco di marmo che scolpisci da cui solo alla fine estrai una figura umana».

Sebbene non ritenga di aver peccato di arroganza in giovane età, anche Sergio Castellitto possiede quel desiderio di mostrarsi e di apparire che, crede, «sia uno strumento di lavoro per un artista, per un attore in particolare. Fatico a considerare l’attore un artista in senso puro, mi piace immaginarlo come un artigiano di classe».

Una classe che l’attore esibisce anche fuori dal set. Sul red carpet emerge il suo carattere ironico, fuori dal comune e l’amore per gli accessori: soprattutto il cappello, che usa come un oggetto di scena. Uno stile vero, che viene dall’interno, come sottolinea, anche perché «ogni stile che si prova a riproporre sa di plastica. Uno stile non nasce solo dalla capacità di essere eleganti e spiritosi, ma di saper maneggiare le proprie fragilità, le proprie insicurezze.

Sergio Castellitto
Camicia e cravatta Boggi Milano

Lo stile determina in qualche modo il fascino, ma se è troppo cosciente a Roma si dice che è loffio, è sospetto. Uno stile è malgré toi: nasce dal tuo corpo, dalla tua storia, dalla tua vita. Ho incontrato umili contadini con uno stile che manager dell’alta finanza non possiederanno mai. È quasi impossibile definire lo stile: nel momento in cui lo definisci in realtà stai definendo uno stereotipo».

Lo stile, ineffabile, di Sergio Castellitto respira con i personaggi che porta sullo schermo: «L’attore è come un fegato, l’organo più tossico che abbiamo, perché ha il compito di filtrare tutto. E quando filtra, qualcosa rimane dentro di te. Recitare è un modo di dire la propria sulla vita e sulle cose. Accanto al curriculum delle cose fatte si dovrebbe scrivere quello delle cose che non si è voluto fare. Anche in questo si esprime uno stile». Che non teme il passare del tempo perché l’età può regalare soddisfazioni da godersi «fino all’ultima goccia. Apprezzare il tutto e il niente allo stesso modo è un bel punto di arrivo».

Sergio Castellitto ha raccontato che un giorno, di ritorno da scuola sul Lungotevere, scorge un’oasi di luce e nell’oasi di luce una roulotte bianca da cui sbuca Vittorio Gassman «in uno splendido cappotto di cammello. Senza rendermene conto in quel momento, nel mio inconscio, decisi di essere attore», confessa.

Sergio Castellitto
Cappotto, camicia e occhiali da sole Boggi Milano

Poi nel tempo un cappotto di cammello lo ha anche comprato, sebbene preferisca farsi «regalare sempre qualcosa dai costumisti dei film per il piacere di possedere quella giacca, quel pantalone. Una specie di piccolo museo personale delle cose. Sono oggetti, gli abiti, che hanno un valore affettivo».

Nel suo guardaroba-museo ci sono tanti cappelli, «nella misura in cui li ho trovati, li ho scelti, me ne hanno regalati, diventano la mia coperta di Linus. Poi spesso li perdo, allora ne compro un altro e fatico un po’ a riaffezionarmi. Ultimamente mi sono comprato un oggetto di legno molto bello, artigianale, che serve per allargare il cappello. Ogni tanto recupero vecchi cappelli che mi stanno un po’ stretti perché col tempo si sono infeltriti, li riallargo e li riuso. Il cappello è un capo cui sono molto affezionato: lo puoi indossare ma anche tenerlo in tasca, in mano, diventa un oggetto con cui fai amicizia, lo tocchi, soprattutto se è fatto di materia nobile come la lana, il cotone».

Secondo il pittore Filippo De Pisis, nel trattatello Adamo o dell’eleganza, “il copricapo, o il cappello che dir si voglia, può essere di svariatissime forme. Come ogni uomo non è identico e confondibile con nessun altro, così è il suo cappello”. Nella nostra epoca, che ama il comfort sopra ogni cosa e ha decretato che il cappello è démodé, Castellitto, malgré lui, resiste. «Ma “è l’oggetto in sé”», precisa», «non la finalità del metterselo in testa, che fa compagnia. Quante volte son tornato indietro, ho detto: “Scusi, ho dimenticato il cappello”».

Nella foto d’apertura Sergio Castellitto indossa abito, camicia e occhiali da sole Boggi Milano. Photos by Bruno + Nico Van Mossevelde, styling by Edoardo Caniglia. Grooming: Giulio Ordonselli. Styling assistant: Gaia Menichini. Location: Circus Studios (circustudios.com).