Chi ha davvero avuto successo grazie all’LVMH Prize?
È il sogno di ogni aspirante stilista: la benedizione dell’Olimpo del lusso. Ma per ogni Grace Wales Bonner che raggiunge le vette, c’è un Thomas Tait che si perde nel vuoto. La storia del premio che forgia dei e crea Icaro nella stessa, splendida, fucina
Nella moda c’è chi vince un premio, e chi vince il premio. Nella mitologia, gli eroi affrontano prove terribili per guadagnarsi un posto tra gli dei. Nell’Olimpo fashion, quella prova si chiama LVMH Prize. Dal 2014 è il crinale da cui si viene proiettati verso le vette dell’industria. O inghiottiti dall’oblio. Un luogo di fuoco, capitale e mentorship al cospetto (e al giudizio) degli dei dell’industria. Un luogo dove un comune mortale può essere investito da un potere capace di elevarlo a semidio; o di consumarlo del tutto.
Fondato nel 2013 da Delphine Arnault, il LVMH Prize è il wet dream di ogni studente della Central Saint Martins: 400.000 euro (sorvoliamo sul fatto che per un colosso da oltre 80 miliardi di fatturato sia il resto del caffè), un anno di mentorship dentro il gruppo del lusso più potente al mondo, e soprattutto l’illusione (o la possibilità concreta) di entrare nell’élite. Ma a dodici anni dal debutto, la domanda resta: è davvero il trampolino verso l’Olimpo della moda, o solo una sofisticata impresa di scouting globale?

Chi ce l’ha fatta
Guardiamo i numeri, ma soprattutto i nomi. Nel 2016 Grace Wales Bonner, oggi tra i designer più influenti della sua generazione appena nominata direttrice creativa dell’uomo di Hermès, ha trasformato il premio in un passaporto culturale. Da tesi di laurea sull’identità black a collaborazioni globali con Adidas, A24 e The Serpentine Gallery.

Un anno dopo, Marine Serre ha riscritto la grammatica del post-apocalittico: il suo “crescent moon” è diventato uno dei simboli più riconoscibili del decennio, traghettando l’upcycling dall’underground al prêt-à-porter. Nel 2019, il sudafricano Thebe Magugu ha portato il continente africano al centro del dibattito moda, collaborando con AZ Factory, Dior, Adidas e diventando la prova vivente che si può costruire un brand globale senza spostarsi da Johannesburg. E nel 2021, Nensi Dojaka ha imposto la sua silhouette chirurgica tra Londra e Milano: il premio le ha permesso di passare da capsule autoprodotte a un’azienda con filiera strutturata in Italia, oggi sostenuta dai buyer più esigenti.
Nel frattempo, tra i finalisti che non hanno vinto, alcuni hanno brillato ancora di più. Jacquemus, finalista 2014, è diventato un caso scuola di storytelling e desiderabilità commerciale; Virgil Abloh (Off-White) e Demna (Vetements), finalisti 2015, hanno finito per guidare Louis Vuitton e Balenciaga. Insomma, anche chi non sale sul podio spesso entra comunque nella leggenda. Il premio, più che un trofeo, è un radar: individua prima degli altri dove sta andando la moda.

Chi invece è caduto
Ma non tutti gli dèi restano tali. E per ogni divinità che si afferma c’è la controparte: un Icaro. Il primo vincitore, Thomas Tait, chiuse il suo brand dopo pochi anni: l’impatto mediatico non bastò a sostenere la macchina imprenditoriale. Marques’Almeida, premiati nel 2015, vissero un decennio glorioso ma oggi appaiono in pausa. La verità è che l’LVMH Prize ti dà le ali, ma non ti insegna a governare le correnti del mercato.
A differenza dell’ANDAM o del Woolmark Prize, che si presentano come strumenti di supporto all’arte e alla ricerca, l’LVMH Prize è una macchina perfettamente allineata ai codici del capitalismo creativo.
Serve a mappare i nuovi talenti, intercettare innovazione e, talvolta, avvicinare a sé i futuri direttori creativi. In questo senso, il premio è il più raffinato meccanismo di open innovation del lusso: un modo per LVMH di studiare il laboratorio creativo esterno senza correre i rischi del mercato. È capitalismo che osserva la controcultura, la finanzia e, quando serve, la addomestica.

Lvmh Prize: trampolino e campo minato?
Sì, è innegabile che sia un trampolino. Ma un trampolino elastico posto sopra un campo minato. Ti lancia in alto, verso le luci della ribalta e gli uffici dei CEO (quelli veri, non su LinkedIn). Ma l’atterraggio è tutto. Puoi atterrare come Marine Serre, in piedi e con una visione più forte che mai. Oppure puoi scoprire che il vento in quota è più forte di te.