I designer amano le sedie (quasi quanto i vestiti)
Da Rei Kawakubo a Virgil Abloh, tutte le volte che la moda ha disegnato il suo posto a sedere. Letteralmente
Se fosse stato uno stilista a disegnare il Trono di Spade, non sarebbe stato fatto di spade. Troppo letterale, troppo ready-to-wear. Rei Kawakubo l’avrebbe scolpito in un unico blocco di granito, una forma austera e imperfetta che nega il comfort per affermare un rigore quasi monastico. Rick Owens, invece, lo avrebbe eretto come un altare preistorico: marmo nero e corna di alce, un’ode al brutalismo tribale. Virgil Abloh l’avrebbe smontato e rimontato in una griglia di metallo cromato, trasformandolo in pezzo immediatamente riconoscibile e riproducibile. L’avrebbe chiamato “Throne™” e, in una caption su Instagram, avrebbe scritto: «King, framed». Ma questa non è fantasia. È la storia recente della moda.
Da tempo, i grandi stilisti hanno smesso di aspettare un trono: se lo sono costruiti da soli. La sedia. Solida, muta, eppure profondamente autobiografica: il loro autoritratto in forma d’oggetto. La moda ha trovato in questo oggetto d’arredo il suo specchio più fedele. Un piccolo trono da cui guardare il mondo (e se stessa) da un’altra prospettiva. Non fatto per regnare, ma per pensare.
Rei Kawakubo

Rei Kawakubo, la mente e la mano di Comme des Garçons, lo ha capito prima di molti altri. Negli anni ’80, mentre smantellava i canoni della bellezza femminile con i suoi “body become dress”, iniziò a forgiare sedie per i suoi flagship store. Non erano oggetti accoglienti. Erano blocchi di granito e lastre d’acciaio, numerati e austeri, come reperti di un’antica civiltà futura. Quella di Kawakubo non era una ricerca sul comfort, ma sul rigore. La sua sedia, come il suo celebre maglione lumps and bumps, è un’esplorazione dello spazio negativo, del vuoto che definisce il pieno. Non era fatta per stare comodi, ma per riflettere.
Virgil Abloh

La lezione della maestra giapponese non è andata sprecata. Ha attraversato oceani e generazioni, arrivando dritta alla scrivania di Virgil Abloh. Architetto di formazione, Abloh ha fatto del “quoting” e del “3% change” una filosofia. Con The Framing Collection del 2016, ha imbrigliato il marmo e il metallo in una griglia, un omaggio didascalico ma geniale a Mies van der Rohe. Se Kawakubo interrogava la materia, Abloh metteva in cornice l’idea stessa di design. La sua operazione era puro ready-made duchampiano: prendere un oggetto di design iconico, svuotarlo quasi completamente, e presentarlo come un’istantanea del processo creativo. La sedia come meme, un post di Instagram tridimensionale. “Il mobile è il mio passo successivo naturale. La moda è effimera, ma una sedia può sopravvivermi”, dichiarò in un’intervista.
Raf Simons

Raf Simons, prima di diventare l’alter-ego di Miuccia Prada, si è laureato in Industrial and Furniture Design. Questa formazione è il sottotesto di tutta la sua opera. La sua collaborazione con Kvadrat per la produzione di tessuti d’arredo non è un semplice side project; è la versione tattile e domestica delle sue giacche in pelle teen-angst. Rivede anche sedie cult attraverso trame spesse, cromie polverose, superfici da accarezzare: l’arredo diventa il prolungamento naturale del guardaroba. È una forma di design carica di una sensualità repressa. I suoi tessuti, come le sue collezioni, parlano di protezione, di introspezione, di un lusso che è prima di tutto comfort per l’anima.
Ann Demeulemeester

Dall’altra parte dello spettro poetico, Ann Demeulemeester per Serax ha tradotto il suo romanticismo oscuro in una linea di mobili che sono elegie in legno e porcellana. Sono oggetti sospesi, un equilibrio perfetto tra fragilità e forza, come un abito di pizzo nero che si sfilaccia appositamente per sembrare più forte, non più debole. La grammatica è quella di sempre: luce/ombra, fragilità/forza, una sensualità trattenuta che predilige la linea alla decorazione. In termini di prodotto, la sedia diventa presenza silenziosa (grafica, essenziale, misurata). In breve: lo “spirito” Ann è stato letteralmente messo a sedere, senza perdere rigore né poesia.
Rick Owens

E poi c’è Rick Owens, l’oscuro sacerdote del brutalismo fashion. Le sue sedie, panche e tavoli sono menhir moderni, scolpiti in marmo, compensato o, con una punta di provocazione tribale, corna di alce. Un repertorio di forme sacrali che sposta la sua – peculiarissima – visione dal corpo allo spazio. Non a caso il suo arredo ha circolato fra gallerie e istituzioni (Carpenters Workshop Gallery) ed è stato presentato in contesti museali come il Centre Pompidou e il MOCA di Los Angeles; nel 2019, durante FIAC, il Pompidou ha ospitato un suo intervento-performance costruito proprio attorno ai suoi arredi. Sono l’essenza della sua estetica: primitiva, monumentale, sessualmente ambigua. Lo dice lui stesso: “il mio furniture è la mia couture”. Sedersi su una di queste sedie, o anche solo fermarsi a contemplarla, significa aderire a un’idea di bellezza dura, scultorea, deliberatamente anti-consolatoria.