Luca Bigazzi: come fare un film con lo smartphone
Credits: Apple

Luca Bigazzi: come fare un film con lo smartphone

di Simona Santoni

Direttore della fotografia da sette David di Donatello, è un amante della rivoluzione digitale. E confessa: «Lavoro spesso con il cellulare, strumento incredibile di ripresa». Proprio ora è nella casa di Godard a “rubare” istanti con uno smartphone

Quando parla del suo lavoro, Luca Bigazzi ha l’abitudine di far sembrare tutto così semplice. Ma sette David di Donatello vinti, come nessun direttore della fotografia mai, stanno lì a dimostrare che nel suo lavoro c’è qualcosa di straordinario. Dietro la luce che esalta splendore e decadenza nel film premio Oscar La grande bellezza? C’è lui. La Venezia notturna della commedia cult Pane e tulipani? Ha il suo tocco. Così come la Roma rovente e senz’acqua dell’apocalittico Siccità, dai toni gialli e arsi, eppure girato d’inverno, a febbraio.

Collaboratore storico di Paolo Sorrentino e Silvio Soldini, amante della luce naturale e della rivoluzione digitale, Luca Bigazzi non è un certo un nostalgico della pellicola, «poco sensibile alla luce», ci spiega. «Se mi chiedessero di girare un film in 35 mm direi “no, grazie”. Lavoro spesso con iPhone, strumento incredibile di ripresa».
Non a caso, recentemente è stato protagonista del talk “Spotlight: Cinema della realtà su iPhone con Luca Bigazzi” all’Apple store di piazza Liberty a Milano. Lo abbiamo incontrato.

La grande bellezza
Credits: Medusa Film
Immagine del film “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino. Fotografia di Luca Bigazzi

Luca Bigazzi, dove ti trovi ora? A che film stai lavorando?

«Ora sono a Rolle, in Svizzera. Stiamo girando un documentario sulla casa di Jean-Luc Godard, che stanno svuotando in questi giorni. La regista iraniana Mitra Farahani, che è stata sua collaboratrice, sta realizzando un film sugli ultimi anni del regista francese e sullo sgombero della sua abitazione: è un progetto molto bello. È impressionante perché ci si immagina che Godard, così famoso (è il mio idolo!), vivesse in una villa principesca. E invece aveva una residenza quasi da homeless, fa un po’ impressione. Però è piena di cose interessantissime».

E per le riprese utilizzi i mezzi classici o anche qui lo smartphone?

«Usiamo una macchina da presa professionale ma spesso uso anche il telefonino per fare delle riprese “rubate”, come sempre. Ad esempio, magari mentre facciamo un’inquadratura molto larga con la macchina, contemporaneamente giro delle scene strettissime con lo smartphone, mezzo invisibile e piccolo. Ormai mischio tutto, senza timore».

Anche Sean Baker, regista Palma d’oro e Oscar con Anora, per Tangerine (2015), a causa del budget limitato, usò soltanto tre smartphone per le riprese. E Steven Soderbergh, il cineasta della saga Ocean’s, ha realizzato sia Unsane (2018) che High Flying Bird (2019) con un iPhone. Tra i big del cinema c’è un’apertura a girare con lo smartphone?

«Sì, perché è evidente la sua praticità. Io ho sempre detestato l’ossessione per la tecnica. Sul set la cosa importante è essere veloci, leggeri e invisibili, soprattutto in un documentario. La macchina da presa professionale è un po’ ingombrante, per questo io intanto rubo immagini con il cellulare, certo che poi si attaccheranno perfettamente al resto del girato: nessuno vedrà la differenza di qualità. E questo vale anche per i film di finzione».

Luca Bigazzi telefonino
Credits: Apple
Luca Bigazzi durante il talk all’Apple store di Milano

A livello pratico, il primo consiglio da dare a chi vuole girare un film con uno smartphone?

«La tecnica dello smartphone è elementare. In verità un po’ lo è anche quella della macchina da presa, nonostante ci sia questa mitologia che sia così difficile imparare a usarla. Il problema è piuttosto inventarsi un’estetica diversa, cioè creare immagini che abbiano una sorprendente innovazione, anche per il fatto di usare uno strumento così leggero e piccolo, molto più duttile e versatile delle macchine tradizionali che forse sono di migliore qualità ma più ingombranti. Con uno smartphone puoi fare delle cose altrimenti impensabili: per questo dovrebbe esserci una scelta formale innovativa. E invece purtroppo spesso vedo che c’è una tendenza conservativa a imitare quanto già visto. Adesso che si può inventare una nuova estetica, osate».

Girare un film con un cellulare non esclude ovviamente avere una cultura cinematografica e un’idea di regia, giusto?

«Assolutamente no. La storia del cinema va conosciuta e poi buttata via: ogni innovazione nasce dal conoscere la storia dell’arte, per poi sovvertire e farne altro. Non sto facendo un’ode all’ignoranza. Auspico la conoscenza e poi il suo ribaltamento. Ai miei tempi era economicamente faticoso e tecnicamente difficile girare un film. Ora invece, giovani filmmaker, avete strumenti leggeri, economici e versatili: usateli, non fatevi limitare se non avete soldi, cercate di immaginare qualcosa di nuovo».

Pregi e difetti tecnici di girare un film con uno smartphone?

«Tra i pregi, oltre alla libertà di azione che consente il cellulare e alla sua leggerezza e versatilità, c’è il fatto che restituisce immagini molto stabilizzate, pur girando in movimento. Il telefonino ha uno stabilizzatore interno notevolissimo che fa sì che l’uso della Steadicam o del Ronin sia totalmente superato. Il problema è invece che la lente ovviamente non è un’ottica, quindi è impossibile mettere un paraluce: in alcuni casi si possono avere flare e difficoltà tecniche abbastanza evidenti. Ad esempio, inquadrando una candela, non si riesce ad eliminare il riflesso dato dalla fiamma. Voglio precisare: non sto affermando che lo smartphone sia migliore di una macchina da presa professionale, tanto più ora che il cinema vive una grande crisi professionale. Se c’è la possibilità, meglio girare con una troupe. Dico solo che il telefonino è una soluzione interessante e aperta alla creatività quando non ci sono alti budget. Un giovane filmmaker senza mezzi, ne approfitti e giri comunque il suo film».

Luca Bigazzi telefonino
Credits: Bibi Film
Immagine del film “Copia conforme” di Abbas Kiarostami. Fotografia di Luca Bigazzi

Tu hai girato con l’iPhone i documentari Mama Mercy di Alessandra Cutolo, che è andato al Festival di Torino, e La diaspora delle Vele di Francesca Comencini che racconta l’esodo dai grandi palazzi di Scampia, simbolo del degrado …

«Sì, e l’ho usato molto anche nelle scuole di cinema, sia a Milano che a Roma e in Svizzera: spingo gli studenti a girare dei cortometraggi in massimo 4-5 ore usando solamente il telefonino, senza luci artificiali, per imparare a usare la luce naturale in maniera creativa. Ed escono bei lavori! Per il documentario sulle Vele di Scampia, girare con il telefonino ci ha aiutato moltissimo perché riprendere gli abitanti così è meno imbarazzante che con due macchine da presa enormi, con lo stativo, il cavalletto, le ottiche… Sono convinto che li abbia aiutati a essere più sinceri e spontanei. La diaspora delle Vele è un film molto interessante perché ribalta l’immagine di Scampia come luogo di Gomorra. È un luogo di grande umanità e socialità».

Quale app usi?

«Blackmagic Camera. È molto buona ed è gratuita, quindi mi piace anche a livello ideologico. Però ce ne saranno sicuramente altre ugualmente valide».

Tornando alla tua carriera da “domatore della luce”, tra i tanti film a cui hai lavorato, qual è stato il più impegnativo?

«Ogni tanto mi capita di fare film all’estero, ma lo trovo molto difficile, perché la conoscenza della lingua e dei luoghi in cui si gira per me è fondamentale. Ad esempio, Copia conforme di Kiarostami, è uno dei film che amo di più tra quelli realizzati. È stata un’esperienza meravigliosa ma complicata. Dopo due o tre giorni sul set, Abbas mi ha detto: “Ho capito perché non ci capiamo, perché tu leggi da sinistra a destra, io da destra a sinistra”. Aveva ragione: noi occidentali vediamo tutto da sinistra a destra, perché scriviamo da sinistra a destra, mentre gli iraniani scrivono da destra a sinistra. Anche l’interpretazione della luce e del movimento di macchina è in un’ottica completamente diversa. Conoscere la sociologia dell’illuminazione e la storia delle immagini, rispetto al luogo in cui si gira, è basilare. Non a caso, quando gli americani girano in Italia, fanno dei film ridicoli. E lo stesso quando noi facciamo film all’estero. Per La stella che non c’è di Gianni Amelio ho girato in Cina ed ero molto imbarazzato perché non so come si illumina una casa cinese».

Siccità, Fotografia di Luca Bigazzi
Credits: Greta De Lazzaris
Immagine del film “Siccità” di Paolo Virzì. Fotografia di Luca Bigazzi

Ti sei cimentato anche con piani sequenza lunghi e memorabili. Penso al finale de Le conseguenze dell’amore, girato interamente a mano, della durata di 8 minuti.

«Quel piano sequenza è stato particolarmente difficile. E anche faticoso, perché muovevo una macchina da presa con pellicola, del peso di 30 chili, con un caricatore da 300 metri. Oggi le macchine da presa digitali sono molto più leggere. E il telefonino ancor di più. Alla fine di quel piano sequenza mi sedevo e la macchina oscillava perché ero affaticato. Oggi non avrei fatto quella fatica e la scena sarebbe stata più stabile e migliore».

Tra i film a cui hai partecipato, quale porti più nel cuore?

«Il divo, perché è un film povero, che nessuno voleva produrre visto che era su Andreotti. Lo abbiamo fatto con pochissimi mezzi ed è venuto davvero bene. Però i film li amo tutti, anzi, quasi tutti: il 90% di quelli che ho fatto».

A Il divo è legato un episodio intrigante, che hai raccontato durante il talk all’Apple store. Ti piace trasformare l’errore in creatività…

«Sono convinto che gli errori siano fonte sorprendente di innovazione. Sul set de Il divo, ho preparato la scena in cui Andreotti (interpretato da Toni Servillo, ndr) era chiuso dentro la vettura di rappresentanza e non si aprivano le portiere, di notte, sotto un temporale. Abbiamo illuminato la pioggia artificiale in controluce con note calde ma, all’ultimo momento, mi sono reso conto che avevo illuminato tutto tranne l’interno dell’auto. Ero in panico anche perché Paolo (Sorrentino, ndr), giustamente, è un regista che non vuole aspettare mezzo secondo in più. Ed è allora che mi è venuto in mente che avevo dei led cinesi a batteria, blu e verdi: li ho messi dentro la vettura. Hanno illuminato Toni in una maniera completamente sbagliata rispetto al romanticismo della scena esterna: temevo venisse fuori una schifezza. E invece poi mi sono reso conto che quell’ipotesi di errore raccontava ancor di più l’isolamento del personaggio. L’errore era diventato una qualità della scena».